Quando
io ero bambino, al paese nessuno aveva in casa impianti di riscaldamento o
condizionatori. Nessuno se ne lamentava, perché nessuno ne avvertiva
l’esigenza, o, più probabilmente, perché nessuno sapeva che esistevano e, se anche
qualcuno lo sapeva, li riteneva roba da ricchi e lussi da pregustare solo nei
film.
Al
caldo dell’estate non si pensava proprio di porre rimedio. Il caldo era
considerato un fatto ineluttabile, al quale era inutile opporsi. Al più ci si
spogliava, riducendo al minimo l’abbigliamento, e, quando proprio non se ne
poteva più, si faceva un’escursione in Sila, “a cambiamento d’aria”, come si
diceva allora.
Ma una piccola Sila l’avevamo pure in
loco: una Sila modesta e casereccia, tutto sommato, a ridosso delle prime case
del paese, prima dell’espansione urbanistica degli anni successivi. Era il
Timpone, questa oasi di fresco, "U Timpuni", come lo chiamavano al paese.
Il Timpone era in realtà una collina,
cui si poteva accedere da ogni lato, ma che, vista dal lato Sud, dalla parte
più bassa dell’abitato, assumeva un aspetto imponente e molto simile a quello
di una vera montagna.
Il Timpone per noi bambini era un vero e
proprio mondo da esplorare. Lungo le pareti era pieno di anfratti dove era
piacevole giocare, sulla sommità aveva un largo spiazzo e dappertutto c’erano
grandi ulivi che protendevano i loro rami.
Lì, preferibilmente, andavo a giocare a
nascondino. Lì, qualche volta, io e i miei piccoli amici ci rinchiudevamo in
qualche cavità naturale. Ci sentivamo felici, perché ci sentivamo separati e
lontani dal mondo esterno. Soprattutto a me, che magari avevo letto qualche
libro più degli altri, toccava di raccontare favole e altre storie, più o meno inventate, ad un pubblico di
bambini incantati e riconoscenti. Saremmo rimasti lì fino alla fine del mondo,
ma poi, quando incominciava a far sera, ritornavamo mesti alle nostre case.
Ancora lì, sullo spiazzo popolato di
ulivi, davamo i primi calci ad un pallone, perché quello era l’unico campo di
calcio del paese. C’era qualche inconveniente però. Spesso il pallone andava a
finire tra i rami degli ulivi e, quando non bastavano i lanci di pietre, con
frequenti rimbalzi delle pietre sulla testa
di un malcapitato, era necessario che qualcuno si arrampicasse tra i
rami per il recupero. Poi qualche volta il pallone volava oltre il limite dello
spiazzo, precipitava lungo i declivi e bisognava andare a recuperarlo lontano,
tra forre, burroni, strade e sentieri. Ma nessuno se ne lamentava e non
nascevano litigi, perché avevamo stabilito una norma rigorosa: il recupero del
pallone toccava a chi ce l’aveva mandato.
Lì,
su quella collina, qualche volta giocavamo alla lippa, “u vettu e ra
squigghia”, come si diceva al paese. Si giocava con due legni di lunghezza
diversa, con il vettu che colpiva la squigghia e la faceva volare lontano e talvolta
sulla testa di qualcuno, con frequenti, successive corse all’ambulatorio, dove
il medico Mauro e l’infermiere don Gustino erano sempre pronti a suturare
ferite.
Lì,
su quella collina, quando il caldo dell’estate bruciava perfino l’erba
tutt’intorno, non era infrequente trovare qualcuno che “prendeva il fresco”
all’ombra degli ulivi. E spesso, anche di notte, qualcuno andava a dormirci,
per sfuggire al caldo dei muri delle case arroventate dal sole.
Quando
poi c’era maltempo e pioveva, in una zona argillosa del Timpone spuntavano
lunghi fili d’erba, da noi chiamati chissà perché “ricottegghre”, che formavano un manto su cui era piacevole scivolare, stando
in piedi e cercando di mantenere l’equilibrio, come in una gara di sci.
Ricordo
che, pur tra luci ed ombre, tutto
sommato ero felice allora. Ero un’autentica schiappa al pallone, me la cavavo
appena con il vettu e la squigghia, ma ero bravo a raccontar favole, che mi
venivano richieste frequentemente dai miei piccoli amici e compagni di scuola. E
comunque qualcosa mi angustiava.
Frequentavo
la quinta elementare ed avevo letto, Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry. La storia mi
era piaciuta molto, ma non capivo perché il protagonista, che poi era un
bambino, si fosse innamorato di una rosa. Anche un bambino poteva innamorarsi,
certo, ma perché innamorarsi di una rosa?
Avevo
deciso che anche io mi sarei innamorato, ma non di una rosa. Io mi sarei
innamorato di una bambina. C’era solo un problema: che, per essere innamorato
di una bambina, bisognava almeno dirglielo e sperare che anche lei si
innamorasse. Ma la sola idea di dire una cosa del genere ad una bambina mi
spaventava, perché ero molto timido. A questo comunque si poteva pensare pure
in seguito, ma intanto bisognava pur trovarla questa bambina che facesse per
me.
La
mia era una delle poche classi miste del paese. Passai in rassegna le mie
compagne e mi accorsi, con rammarico, che nessuna di esse mi piaceva. S. mi
faceva sempre dispetti; T. era bruttina ; L. invece era piuttosto graziosa ed
alta, ma , proprio per questo, si sentiva una diva e disdegnava tutti; F. poi
si permetteva pure di prendermi in giro qualche volta e, proprio per questo, la
detestavo.
Scartate
anche le altre, ne rimaneva una sola, R.T., una bambina piuttosto cresciuta e che
sedeva di lato al banco dopo il mio. Più di una volta l’avevo aiutata nei
compiti ed ero convinto che di questo lei mi fosse riconoscente. Ecco, R.T. era
la bambina di cui mi sarei innamorato, anche perché era graziosa, con gli occhi
stranamente verdi ed i capelli neri raccolti in lunghe trecce. C’era solo il
problema che, prima o poi, bisognava pur dirglielo che ero innamorato di lei.
R.T.
era figlia di un muratore, di un capomastro come diceva lei, ed abitava nel
rione Villetta, in una delle prime case del paese, proprio a ridosso del
Timpone, da cui la separava un breve ed agile sentiero. Per andare o venire da
scuola, ogni giorno, faceva un lungo tratto a piedi e passava sempre davanti
casa mia. Mi capitava di vederla spesso lungo il tragitto, ma mai mi era
capitato di fare un tratto insieme con lei, per un semplice motivo: io, allora,
non ero solito camminare, perché, semplicemente, correvo e quindi lasciavo
indietro tutti gli altri.
Mi
dissi che per prima cosa dovevo smettere
di correre e poi avrei cercato di avvicinarla. Ma questo era il meno. C’era poi
che io non sapevo proprio come dirle che ero innamorato di lei. Come si dicono
certe cose? E con quali parole? E poi con quale tono? Non era certo la stessa
cosa di quando raccontavo favole ai bambini nascosti negli anfratti del
Timpone. Forse dovevo dirle che dovevamo fidanzarci? O sposarci come fanno le
persone grandi? Ma noi non eravamo grandi.
Avevo
idee abbastanza confuse, ma, ad evitare di fare errori o brutte figure, mi
preparai l’intero discorsetto da fare, lo scrissi addirittura e l’imparai a
memoria. Le avrei detto così, immaginando pure le sue domande e le sue risposte.
- Ciao. Sai, ho letto un libro di recente in
cui si parla di un piccolo principe.
- Ah, sì? Bello! Me lo fai leggere?..........
E poi mi dissi che
non dovevo essere timido, che non dovevo arrossire, che non dovevo avere
esitazioni mentre parlavo. Ah se le donne, tutte le donne, grandi o piccole che
siano, conoscessero il dramma di una simile condizione… Comunque io dovevo solo
trovare il momento opportuno, che ovviamente non tardò a presentarsi.
Già il giorno dopo, al mattino, la vidi
sopraggiungere da lontano. Potevo aspettarla, spifferarle il discorsetto che
avevo preparato, ma non ne ebbi il coraggio. Mi misi a correre, come al solito,
e giunsi a scuola prima di lei. All’uscita feci forza a me stesso e mi misi a
camminare lentamente. La vidi subito e mi accostai. Il cuore mi batteva, forte,
ma meno di quanto temessi.
-Ciao.
-Ciao.
-Sai, ho letto un
libro di recente in cui si parla di un piccolo principe.
-Purtroppo io riesco
a leggere solo i libri scolastici. Con tutti i compiti da fare a casa…
Capii subito che
tutto il discorsetto che avevo preparato non serviva a niente e che dovevo
improvvisare… Un altro problema per la mia emozione…
-Comunque era un bel
libro. Il piccolo principe si era innamorato di una rosa…
-Di una rosaaa? Ma tu
l’hai capito bene il libro?
-Difatti…Come ci si
può innamorare di una rosa? Se proprio ci si innamora, ci si innamora di
un’altra persona…Come me. Io pure sono innamorato…
-Ah, sì? Di una
margherita?
-Ma no, che dici!
Indovina un po’…
-Come faccio ad
indovinare? Dimmelo tu.
-Di te, proprio di te.
Ce l’avevo fatta. Mi
sentii improvvisamente calmo, rilassato, come nella quiete dopo la tempesta.
-Scordatelo! Io non
mi posso innamorare di nessuno, perché sono ancora piccola.
-E con questo? Anche
i bambini si innamorano….Così…Senza niente altro…
-E no! Se ci
innamoriamo, poi ci dobbiamo baciare qualche volta e mia madre mi dice sempre
che, se do un bacio a qualcuno, faccio peccato e poi vado all’inferno.
Di fronte alla paura
dell’inferno, intuii che forse non era il caso di insistere, perché, forse, di quella bambina io mi ero
innamorato un po’, e la cosa mi dispiaceva ….certo…quanto mi dispiaceva! Era il
mio primo tentativo ed era andato a vuoto…
Proseguimmo senza
dire più una parola e, arrivato vicino casa mia, la salutai con un velo di
tristezza. Ciao…Ciao…
Per qualche giorno cercai di non pensare
più a R.T., ma qualcuno provvide a farmi ricordare di lei, perché, certamente,
lei ne aveva parlato in giro…
Fu proprio S., quella
che mi faceva sempre i dispetti, ad uscirsene con una battuta.
- Ma è vero che i
principi si innamorano delle rose?
Non le risposi
nemmeno ed in più mi accorsi che la stavo odiando.
Dopo
qualche tempo, mentre ritornavo da scuola, fui accostato da Totò Greco, un
ragazzino, pure lui del rione Villetta, mio compagno abituale nelle partite di
pallone. Mi disse con naturalezza, certamente senza alcun riferimento
personale,
-La sai l’ultima? R.T.
se la fa con Michele, mio amico e nostro vicino di casa, più grande di lei.
Conoscevo
appena questo Michele e comunque, visti i precedenti, stentavo a crederci.
-Non ci credo, gli
replicai.
-Non ci credi?
Credici pure, perché li ho visti io.
-Non ci credo,
insistetti.
-Se vuoi, puoi
vederli anche tu.
-E dove?
-Da quando è
incominciato il caldo, dopo il tramonto del sole, ogni sera, i due sono soliti
fare una passeggiatina sul Timpone. Non ci vuole molto da casa loro, cinque
minuti e sono lì.
Finsi di non dare molto peso a quello
che mi diceva, lo salutai e mi affrettai verso casa. Seduto a tavola, davanti
ad un piatto fumante di pasta, mi accorsi che non avevo fame e scansai il
piatto, con molta meraviglia di mia madre. Già allora, evidentemente, come poi sarebbe
continuato a succedermi nel corso della vita, il primo sintomo delle mie
preoccupazioni era la perdita dell’appetito. Mangiai poco e di malavoglia quel
giorno e ripensai spesso a quello che mi aveva detto Totò Greco.
Non
potevo capacitarmene. Non potevo credere che R.T., con le sue storie sul
peccato e sull’inferno, potesse aver ceduto ad un ragazzino, che, per quel poco
che lo conoscevo, appariva, e probabilmente era, un buzzurro ed un violento col
quale era meglio non avere a che fare. Eppure non riuscivo a non pensarci e,
fino a sera, ondeggiai continuamente tra l’idea di lasciar perdere e la
tentazione di salire sul Timpone, di vederli e possibilmente parlare con lei,
anche con lui eventualmente, così, per capire e magari per rassegnarmi e non
pensarci più.
Ad
un certo punto mi decisi. Sarei andato lì, prima di tutto per sapere se era
vero quel che mi era stato detto. Uscii di casa e per prima cosa,
istintivamente, guardai in cielo. Il sole non c’era più, ma al suo posto c’era
una luna piena, che a me sembrò grandissima, immensa, e che illuminava il paese
tutt’intorno. Verso occidente spiccava nettamente il pianeta Venere e nel buio
della sera si distinguevano i profili delle case, delle persone, dei contadini
che si ritiravano dalla campagna, degli animali che si avviavano vero i recinti
e le stalle.
Mi
diressi al Timpone imboccando il primo sentiero incontrato, subito dietro la
cappelletta di San Leonardo. Presi a salire, mentre non si sentiva un alito di
vento e tutt’intorno la natura sembrava addormentata. Nel rasentare la zona
umida del Timpone, là dove eravamo soliti giocare allo scivolo, sentii il
gracidio delle rane, che improvvisamente si tacquero al mio appressarsi.
Continuavo a salire, a salire, velocemente, non perché avessi fretta di
arrivare, ma perché avevo una sorta di tumulto nel cuore. Ogni tanto però mi
fermavo. Osservavo dall’alto le luci del paese che sembrava distendersi per
lungo come un serpente sinuoso e poi spaziavo con lo sguardo lungo i declivi
della montagna, per cercare di vedere, chissà, qualche sagoma, qualche ombra…
Poi
arrivai allo spiazzo in cima. Dovunque c’era silenzio. Tutt’intorno potevo
osservare gli ulivi che erano stati i muti testimoni della mia fanciullezza e
che continuavano a protendere i loro rami contorti, tra i quali si intravvedeva
la luna tranquilla, luminosa lassù in cielo. Non c’era una nuvola.
Improvvisamente
sentii il canto di un usignolo, nitido e sonoro come in pieno giorno e venne da
chiedermi perché la natura consentiva che quell’uccellino melodioso, solo
quello, continuasse i suoi gorgheggi solitari mentre tutti gli altri erano
assopiti. Sentii il bisogno di dire una preghierina, come facevo la sera a
letto, prima di addormentarmi. Ma non ne ebbi il tempo.
In
fondo, da dietro un albero, erano apparse due figure. Si tenevano per mano,
ogni tanto si fermavano, si guardavano negli occhi e poi riprendevano il
cammino, lentamente, molto lentamente, come volessero assaporare ogni attimo
del tempo che trascorreva inesorabile. Erano R.T. e Michele. Loro non potevano
vedere me, perché mi ero nascosto dietro il tronco di un ulivo, ma io li vedevo
distintamente al chiarore della luna, anche se non riuscivo a percepire
chiaramente le loro parole.
Mi
passai una mano sul volto, come per cacciare un cattivo pensiero e la ritrassi
bagnata. Non era sudore il mio, erano lacrime, semplicemente lacrime. Mi
vergognai, non tanto per quello che stavo facendo, ma per le mie lacrime, e
capii che il mio posto non era lì, tra quelle piante, in quel silenzio. Mi
ritrassi lentamente, cercando di non far rumore, e infine mi misi a correre,
disperato, mentre la grande luna in cielo continuava ad assistere muta ed
impassibile alle mie pene.
A distanza di tanti anni, qualche tempo fa,
trovandomi al paese, sono andato a rivedere quei luoghi. Una stradina
asfaltata, al posto del sentiero di una volta, consente oggi di arrivare facilmente sullo
spiazzo del Timpone. Non ci sono più alberi oggi ed in particolare non ci sono
più gli ulivi che una volta protendevano
i loro rami. Al loro posto ci sono dei fabbricati, anonimi anche se
pretenziosi. Ho fermato l’auto dove una volta giocavamo al pallone, o alla
squigghia. Un signore mi è venuto incontro, apparentemente della mia età, quasi
calvo, con pochi capelli bianchi, alto e magro. Mi dice:
-Ma voi non siete
il…?
-Sì certo, sono io.
Ma io non mi ricordo di voi. Voi chi siete?
-Io sono Michele, non
so se vi ricordate di me. Un mio figlio è stato anche alunno vostro.
-No, non mi ricordo.
Scusatemi. Sono passati tanti anni…
Stavo per
aggiungere:- Ma per caso vostra moglie è…? Ma non gliel’ho chiesto, perché
improvvisamente mi è venuto di pensare che non volevo sapere niente di quella
storia e di quella mia infantile pena d’amore. Era meglio non sapere, era
meglio che tutto rimanesse sfumato, come in un sogno senza fine…
Ho
acceso l’auto, ho innestato la marcia e, lentamente, mi sono avviato. Una parte
della mia vita di fanciullo era finita per sempre e preferivo non ricordare e non sapere, anche
se quella mia fuga con l’auto mi ricordava un’altra fuga di tanti anni prima,
sul Timpone del paese, sotto i raggi della luna, tra il silenzio degli ulivi ed
il canto solitario di un usignolo.
Ezio Scaramuzzino
Decisamente molto ma molto più umano
RispondiEliminaE apprezzabile degli interventi politici.
Mi è piaciuto moltissimo.
Molto bello e coinvolgente. Complimenti!
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