martedì 6 agosto 2019

Una sera di luna piena (racconto inedito) di Ezio Scaramuzzino



Quando io ero bambino, al paese nessuno aveva in casa impianti di riscaldamento o condizionatori. Nessuno se ne lamentava, perché nessuno ne avvertiva l’esigenza, o, più probabilmente, perché nessuno sapeva che esistevano e, se anche qualcuno lo sapeva, li riteneva roba da ricchi e lussi da pregustare solo nei film.
Al caldo dell’estate non si pensava proprio di porre rimedio. Il caldo era considerato un fatto ineluttabile, al quale era inutile opporsi. Al più ci si spogliava, riducendo al minimo l’abbigliamento, e, quando proprio non se ne poteva più, si faceva un’escursione in Sila, “a cambiamento d’aria”, come si diceva allora.
        Ma una piccola Sila l’avevamo pure in loco: una Sila modesta e casereccia, tutto sommato, a ridosso delle prime case del paese, prima dell’espansione urbanistica degli anni successivi. Era il Timpone, questa oasi di fresco, "U Timpuni", come lo chiamavano al paese.
        Il Timpone era in realtà una collina, cui si poteva accedere da ogni lato, ma che, vista dal lato Sud, dalla parte più bassa dell’abitato, assumeva un aspetto imponente e molto simile a quello di una vera montagna.
        Il Timpone per noi bambini era un vero e proprio mondo da esplorare. Lungo le pareti era pieno di anfratti dove era piacevole giocare, sulla sommità aveva un largo spiazzo e dappertutto c’erano grandi ulivi che protendevano i loro rami.
       Lì, preferibilmente, andavo a giocare a nascondino. Lì, qualche volta, io e i miei piccoli amici ci rinchiudevamo in qualche cavità naturale. Ci sentivamo felici, perché ci sentivamo separati e lontani dal mondo esterno. Soprattutto a me, che magari avevo letto qualche libro più degli altri, toccava di raccontare favole e altre storie,  più o meno inventate, ad un pubblico di bambini incantati e riconoscenti. Saremmo rimasti lì fino alla fine del mondo, ma poi, quando incominciava a far sera, ritornavamo mesti alle nostre case.
        Ancora lì, sullo spiazzo popolato di ulivi, davamo i primi calci ad un pallone, perché quello era l’unico campo di calcio del paese. C’era qualche inconveniente però. Spesso il pallone andava a finire tra i rami degli ulivi e, quando non bastavano i lanci di pietre, con frequenti rimbalzi delle pietre sulla testa  di un malcapitato, era necessario che qualcuno si arrampicasse tra i rami per il recupero. Poi qualche volta il pallone volava oltre il limite dello spiazzo, precipitava lungo i declivi e bisognava andare a recuperarlo lontano, tra forre, burroni, strade e sentieri. Ma nessuno se ne lamentava e non nascevano litigi, perché avevamo stabilito una norma rigorosa: il recupero del pallone toccava a chi ce l’aveva mandato.
Lì, su quella collina, qualche volta giocavamo alla lippa, “u vettu e ra squigghia”, come si diceva al paese. Si giocava con due legni di lunghezza diversa, con il vettu che colpiva la squigghia e la faceva volare lontano e talvolta sulla testa di qualcuno, con frequenti, successive corse all’ambulatorio, dove il medico Mauro e l’infermiere don Gustino erano sempre pronti a suturare ferite.
Lì, su quella collina, quando il caldo dell’estate bruciava perfino l’erba tutt’intorno, non era infrequente trovare qualcuno che “prendeva il fresco” all’ombra degli ulivi. E spesso, anche di notte, qualcuno andava a dormirci, per sfuggire al caldo dei muri delle case arroventate dal sole.
Quando poi c’era maltempo e pioveva, in una zona argillosa del Timpone spuntavano lunghi fili d’erba, da noi chiamati chissà perché “ricottegghre”,  che formavano un  manto su cui era piacevole scivolare, stando in piedi e cercando di mantenere l’equilibrio, come in una gara di sci.
Ricordo che, pur tra luci ed ombre,  tutto sommato ero felice allora. Ero un’autentica schiappa al pallone, me la cavavo appena con il vettu e la squigghia, ma ero bravo a raccontar favole, che mi venivano richieste frequentemente dai miei piccoli amici e compagni di scuola. E comunque qualcosa mi angustiava.
Frequentavo la quinta elementare ed avevo lettoIl piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry. La storia mi era piaciuta molto, ma non capivo perché il protagonista, che poi era un bambino, si fosse innamorato di una rosa. Anche un bambino poteva innamorarsi, certo, ma perché innamorarsi di una rosa?
Avevo deciso che anche io mi sarei innamorato, ma non di una rosa. Io mi sarei innamorato di una bambina. C’era solo un problema: che, per essere innamorato di una bambina, bisognava almeno dirglielo e sperare che anche lei si innamorasse. Ma la sola idea di dire una cosa del genere ad una bambina mi spaventava, perché ero molto timido. A questo comunque si poteva pensare pure in seguito, ma intanto bisognava pur trovarla questa bambina che facesse per me.
La mia era una delle poche classi miste del paese. Passai in rassegna le mie compagne e mi accorsi, con rammarico, che nessuna di esse mi piaceva. S. mi faceva sempre dispetti; T. era bruttina ; L. invece era piuttosto graziosa ed alta, ma , proprio per questo, si sentiva una diva e disdegnava tutti; F. poi si permetteva pure di prendermi in giro qualche volta e, proprio per questo, la detestavo.
Scartate anche le altre, ne rimaneva una sola, R.T., una bambina piuttosto cresciuta e che sedeva di lato al banco dopo il mio. Più di una volta l’avevo aiutata nei compiti ed ero convinto che di questo lei mi fosse riconoscente. Ecco, R.T. era la bambina di cui mi sarei innamorato, anche perché era graziosa, con gli occhi stranamente verdi ed i capelli neri raccolti in lunghe trecce. C’era solo il problema che, prima o poi, bisognava pur dirglielo che ero innamorato di lei.
R.T. era figlia di un muratore, di un capomastro come diceva lei, ed abitava nel rione Villetta, in una delle prime case del paese, proprio a ridosso del Timpone, da cui la separava un breve ed agile sentiero. Per andare o venire da scuola, ogni giorno, faceva un lungo tratto a piedi e passava sempre davanti casa mia. Mi capitava di vederla spesso lungo il tragitto, ma mai mi era capitato di fare un tratto insieme con lei, per un semplice motivo: io, allora, non ero solito camminare, perché, semplicemente, correvo e quindi lasciavo indietro tutti gli altri.
Mi dissi che per prima cosa  dovevo smettere di correre e poi avrei cercato di avvicinarla. Ma questo era il meno. C’era poi che io non sapevo proprio come dirle che ero innamorato di lei. Come si dicono certe cose? E con quali parole? E poi con quale tono? Non era certo la stessa cosa di quando raccontavo favole ai bambini nascosti negli anfratti del Timpone. Forse dovevo dirle che dovevamo fidanzarci? O sposarci come fanno le persone grandi? Ma noi non eravamo grandi.
Avevo idee abbastanza confuse, ma, ad evitare di fare errori o brutte figure, mi preparai l’intero discorsetto da fare, lo scrissi addirittura e l’imparai a memoria. Le avrei detto così, immaginando pure le sue domande  e le sue risposte.
-       Ciao. Sai, ho letto un libro di recente in cui si parla di un piccolo principe.
-       Ah, sì? Bello! Me lo fai leggere?..........
E poi mi dissi che non dovevo essere timido, che non dovevo arrossire, che non dovevo avere esitazioni mentre parlavo. Ah se le donne, tutte le donne, grandi o piccole che siano, conoscessero il dramma di una simile condizione… Comunque io dovevo solo trovare il momento opportuno, che ovviamente non tardò a presentarsi.
        Già il giorno dopo, al mattino, la vidi sopraggiungere da lontano. Potevo aspettarla, spifferarle il discorsetto che avevo preparato, ma non ne ebbi il coraggio. Mi misi a correre, come al solito, e giunsi a scuola prima di lei. All’uscita feci forza a me stesso e mi misi a camminare lentamente. La vidi subito e mi accostai. Il cuore mi batteva, forte, ma meno di quanto temessi.
-Ciao.
-Ciao.
-Sai, ho letto un libro di recente in cui si parla di un piccolo principe.
-Purtroppo io riesco a leggere solo i libri scolastici. Con tutti i compiti da fare a casa…
Capii subito che tutto il discorsetto che avevo preparato non serviva a niente e che dovevo improvvisare… Un altro problema per la mia emozione…
-Comunque era un bel libro. Il piccolo principe si era innamorato di una rosa…
-Di una rosaaa? Ma tu l’hai capito bene il libro?
-Difatti…Come ci si può innamorare di una rosa? Se proprio ci si innamora, ci si innamora di un’altra persona…Come me. Io pure sono innamorato…
-Ah, sì? Di una margherita?
-Ma no, che dici! Indovina un po’…
-Come faccio ad indovinare? Dimmelo tu.
-Di te, proprio di te.
Ce l’avevo fatta. Mi sentii improvvisamente calmo, rilassato, come nella quiete dopo la tempesta.
-Scordatelo! Io non mi posso innamorare di nessuno, perché sono ancora piccola.
-E con questo? Anche i bambini si innamorano….Così…Senza niente altro…
-E no! Se ci innamoriamo, poi ci dobbiamo baciare qualche volta e mia madre mi dice sempre che, se do un bacio a qualcuno, faccio peccato e poi vado all’inferno.
Di fronte alla paura dell’inferno, intuii che forse non era il caso di insistere,  perché, forse, di quella bambina io mi ero innamorato un po’, e la cosa mi dispiaceva ….certo…quanto mi dispiaceva! Era il mio primo tentativo ed era andato a vuoto…
Proseguimmo senza dire più una parola e, arrivato vicino casa mia, la salutai con un velo di tristezza. Ciao…Ciao…
        Per qualche giorno cercai di non pensare più a R.T., ma qualcuno provvide a farmi ricordare di lei, perché, certamente, lei ne aveva parlato in giro…
Fu proprio S., quella che mi faceva sempre i dispetti, ad uscirsene con una battuta.
- Ma è vero che i principi si innamorano delle rose?
Non le risposi nemmeno ed in più mi accorsi che la stavo odiando.
Dopo qualche tempo, mentre ritornavo da scuola, fui accostato da Totò Greco, un ragazzino, pure lui del rione Villetta, mio compagno abituale nelle partite di pallone. Mi disse con naturalezza, certamente senza alcun riferimento personale,
-La sai l’ultima? R.T. se la fa con Michele, mio amico e nostro vicino di casa, più grande di lei.
Conoscevo appena questo Michele e comunque, visti i precedenti, stentavo a crederci.
-Non ci credo, gli replicai.
-Non ci credi? Credici pure, perché li ho visti io.
-Non ci credo, insistetti.
-Se vuoi, puoi vederli anche tu.
-E dove?
-Da quando è incominciato il caldo, dopo il tramonto del sole, ogni sera, i due sono soliti fare una passeggiatina sul Timpone. Non ci vuole molto da casa loro, cinque minuti e sono lì.
        Finsi di non dare molto peso a quello che mi diceva, lo salutai e mi affrettai verso casa. Seduto a tavola, davanti ad un piatto fumante di pasta, mi accorsi che non avevo fame e scansai il piatto, con molta meraviglia di mia madre. Già allora, evidentemente, come poi sarebbe continuato a succedermi nel corso della vita, il primo sintomo delle mie preoccupazioni era la perdita dell’appetito. Mangiai poco e di malavoglia quel giorno e ripensai spesso a quello che mi aveva detto Totò Greco.
Non potevo capacitarmene. Non potevo credere che R.T., con le sue storie sul peccato e sull’inferno, potesse aver ceduto ad un ragazzino, che, per quel poco che lo conoscevo, appariva, e probabilmente era, un buzzurro ed un violento col quale era meglio non avere a che fare. Eppure non riuscivo a non pensarci e, fino a sera, ondeggiai continuamente tra l’idea di lasciar perdere e la tentazione di salire sul Timpone, di vederli e possibilmente parlare con lei, anche con lui eventualmente, così, per capire e magari per rassegnarmi e non pensarci più.
Ad un certo punto mi decisi. Sarei andato lì, prima di tutto per sapere se era vero quel che mi era stato detto. Uscii di casa e per prima cosa, istintivamente, guardai in cielo. Il sole non c’era più, ma al suo posto c’era una luna piena, che a me sembrò grandissima, immensa, e che illuminava il paese tutt’intorno. Verso occidente spiccava nettamente il pianeta Venere e nel buio della sera si distinguevano i profili delle case, delle persone, dei contadini che si ritiravano dalla campagna, degli animali che si avviavano vero i recinti e le stalle.
Mi diressi al Timpone imboccando il primo sentiero incontrato, subito dietro la cappelletta di San Leonardo. Presi a salire, mentre non si sentiva un alito di vento e tutt’intorno la natura sembrava addormentata. Nel rasentare la zona umida del Timpone, là dove eravamo soliti giocare allo scivolo, sentii il gracidio delle rane, che improvvisamente si tacquero al mio appressarsi. Continuavo a salire, a salire, velocemente, non perché avessi fretta di arrivare, ma perché avevo una sorta di tumulto nel cuore. Ogni tanto però mi fermavo. Osservavo dall’alto le luci del paese che sembrava distendersi per lungo come un serpente sinuoso e poi spaziavo con lo sguardo lungo i declivi della montagna, per cercare di vedere, chissà, qualche sagoma, qualche ombra…
Poi arrivai allo spiazzo in cima. Dovunque c’era silenzio. Tutt’intorno potevo osservare gli ulivi che erano stati i muti testimoni della mia fanciullezza e che continuavano a protendere i loro rami contorti, tra i quali si intravvedeva la luna tranquilla, luminosa lassù in cielo. Non c’era una nuvola.
Improvvisamente sentii il canto di un usignolo, nitido e sonoro come in pieno giorno e venne da chiedermi perché la natura consentiva che quell’uccellino melodioso, solo quello, continuasse i suoi gorgheggi solitari mentre tutti gli altri erano assopiti. Sentii il bisogno di dire una preghierina, come facevo la sera a letto, prima di addormentarmi. Ma non ne ebbi il tempo.
In fondo, da dietro un albero, erano apparse due figure. Si tenevano per mano, ogni tanto si fermavano, si guardavano negli occhi e poi riprendevano il cammino, lentamente, molto lentamente, come volessero assaporare ogni attimo del tempo che trascorreva inesorabile. Erano R.T. e Michele. Loro non potevano vedere me, perché mi ero nascosto dietro il tronco di un ulivo, ma io li vedevo distintamente al chiarore della luna, anche se non riuscivo a percepire chiaramente le loro parole.
Mi passai una mano sul volto, come per cacciare un cattivo pensiero e la ritrassi bagnata. Non era sudore il mio, erano lacrime, semplicemente lacrime. Mi vergognai, non tanto per quello che stavo facendo, ma per le mie lacrime, e capii che il mio posto non era lì, tra quelle piante, in quel silenzio. Mi ritrassi lentamente, cercando di non far rumore, e infine mi misi a correre, disperato, mentre la grande luna in cielo continuava ad assistere muta ed impassibile alle mie pene.
 A distanza di tanti anni, qualche tempo fa, trovandomi al paese, sono andato a rivedere quei luoghi. Una stradina asfaltata, al posto del sentiero di una volta, consente oggi di arrivare facilmente sullo spiazzo del Timpone. Non ci sono più alberi oggi ed in particolare non ci sono più gli ulivi  che una volta protendevano i loro rami. Al loro posto ci sono dei fabbricati, anonimi anche se pretenziosi. Ho fermato l’auto dove una volta giocavamo al pallone, o alla squigghia. Un signore mi è venuto incontro, apparentemente della mia età, quasi calvo, con pochi capelli bianchi, alto e magro. Mi dice:
-Ma voi non siete il…?
-Sì certo, sono io. Ma io non mi ricordo di voi. Voi chi siete?
-Io sono Michele, non so se vi ricordate di me. Un mio figlio è stato anche  alunno vostro.
-No, non mi ricordo. Scusatemi. Sono passati tanti anni…
Stavo per aggiungere:- Ma per caso vostra moglie è…? Ma non gliel’ho chiesto, perché improvvisamente mi è venuto di pensare che non volevo sapere niente di quella storia e di quella mia infantile pena d’amore. Era meglio non sapere, era meglio che tutto rimanesse sfumato, come in un sogno senza fine…
Ho acceso l’auto, ho innestato la marcia e, lentamente, mi sono avviato. Una parte della mia vita di fanciullo era finita per sempre e  preferivo non ricordare e non sapere, anche se quella mia fuga con l’auto mi ricordava un’altra fuga di tanti anni prima, sul Timpone del paese, sotto i raggi della luna, tra il silenzio degli ulivi ed il canto solitario di un usignolo.
Ezio Scaramuzzino



2 commenti:

  1. Decisamente molto ma molto più umano
    E apprezzabile degli interventi politici.
    Mi è piaciuto moltissimo.

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  2. Molto bello e coinvolgente. Complimenti!

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