Le rare occasioni in cui, guardando la
televisione, mi imbatto nell’ex presidente della Camera Gianfranco Fini, mi
prende la malinconia. Vedo un mio coetaneo un po’ troppo biondo e un po’ troppo
abbronzato chiamato a dire la sua non si sa bene perché: non ha mai avuto un
pensiero politico, non gli è stata mai riscontrata un’idea originale, da
qualche anno a questa parte è un pensionato a tutti gli effetti e però
evidentemente per gli ex politici, come per gli ex attori, il richiamo del
palcoscenico è troppo forte.
L’ultima volta che l’ho visto difendeva le
ragioni del No al referendum e lo faceva con la stessa sicumera con cui avrebbe
potuto difendere quelle del Sì: l’importante è avere un copione.
Fini è stato la nemesi della Destra italiana
e nella sua fine è in fondo scritto il suo principio. In un’intervista al Fatto
quotidiano, di fronte alla scelta monegasca fra l’essere ritenuto «un coglione»
o l’essere considerato «un corrotto», ha optato per la busta numero uno. Gli
crediamo sulla parola, non fosse che un politico coglione spesso fa più danni
di un politico che si limita a rubare.
Leonardo Sciascia faceva risalire la nascita
del «cretino di sinistra» agli anni Sessanta, «mimetizzato nel discorso
intelligente, nel discorso problematico e capillare». Non aveva previsto però
che trent’anni dopo, e avendo intanto celebrato di quel cretino la prevalenza e
poi la decadenza, la legge del pendolo sarebbe andata a suonare l’ora della
cretinaggine dall’altra sponda politica. Fini aveva tutto per incarnarla:
parlava bene senza dire niente, era presuntuoso, era relativamente giovane, era
sempre stato cooptato dall’alto, era cresciuto in un partito dove il cesarismo
e il gregarismo la facevano da padrone. Era, ha scritto qualcuno, «il migliore
dei suoi». E questo fa capire cosa e come fossero gli altri.
Una delle prove provate della coglionaggine
in politica consiste nel ritenersi più furbi del proprio avversario,
semplicemente perché lo si misura con il proprio metro, per di più taroccato.
Fini scambiò se stesso per un professionista e Berlusconi per un parvenu: nella
logica del «delfinato», l’unica che conoscesse e che avesse praticato, l’età e
i guai giudiziari avrebbero fatto il resto… Il risultato fu che Berlusconi gli
mangiò, letteralmente, il partito e l’altro finì (un verbo che sta per un nome)
per lasciarsi irretire da una politica bizantina di palazzo dove il meno
esperto aveva alle spalle un quarto di secolo di intrighi. Non c’era partita,
insomma.
Nemesi della Destra, si diceva prima. Mai da
quando questa parola ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità, ha smesso di
avere un senso. Come leader di partito, Fini fu il becchino del suo mondo. Lo
fece vincere, ma seppellendolo. La conquista del potere trasformata in potere
che dà la conquista, pura e semplice, senza complicazioni di sorta, senza un
motivo, un sentimento, un pensiero. Il grado zero della politica, o il degrado,
fate voi.
In politica la «coglionaggine» significa
anche provincialismo. Se ne sta accorgendo a sue spese Matteo Renzi, reo di
aver scambiato Rignano sull’Arno per la Firenze dei Medici e aver confuso
Calandrino con Lorenzo il Magnifico. Nel caso di Fini è stata letale: non c’era
uso di mondo, ci si ritrovava a fare il ministro degli Esteri senza mai essere
andati oltre Anzio, ci si compiaceva di fare il sub immergendosi in acque
vietate, ci si beava di salotti e rotocalchi, ci si illudeva sull’amore e sulla
paternità a cinquant’anni e su questo tema non andiamo oltre per una questione
di stile. Tutto questo, paradossalmente, finì per fare di lui non tanto un
odiatore di se stesso, quanto del mondo da cui proveniva e in cui si era
completamente formato. Si illuse che distruggendolo e disprezzandolo venisse
fuori un altro io, un leader diverso. Solo che sotto quella camicia nera
buttata nel cestino dei rifiuti c’era il nulla.
La vicenda di Montecarlo è esemplare non
solo per la «coglionaggine» del leader, ma anche, e forse dovremmo dire
soprattutto, per quella dei suoi supporter e difensori dell’epoca,
intellettuali più o meno intelligenti, politici più o meno navigati, pronti a
gettare il cuore oltre l’ostacolo, a superare cioè in coglionaggine lo stesso
numero uno. Non era vero, era un complotto, una congiura, un’arma politica…
Gente che per anni lo aveva criticato, salvo poi allinearsi nel momento del suo
massimo potere, per proprietà transitiva lo investiva ora dei propri desideri:
una destra nuova, presidenzialista, legalitaria e/o giustizialista, anche,
perché no, ecologista…
Si sa che la storia quando si ripete
trasforma il dramma in farsa. Dove c’era un cognato, adesso scopriamo anche un
suocero, dove c’era una moglie «colpevole» in fondo di avere un fratello,
scopriamo una moglie proprietaria della casa del fratello, dove c’era
un’archiviazione della magistratura scopriamo una cooptazione del relativo
magistrato come sottosegretario nel governo Monti appoggiato dal partito
finiano, dove c’era un uomo politico, scopriamo un… Scegliete voi la
definizione. E mettiamoci una pietra sopra.
Stenio
Solinas
da "Il Giornale"
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