Era comune usanza,
nei paesi di una volta, provvedere privatamente ad allevare il maiale. Anche a
Scandale esisteva, poco distante dal paese, una zona riservata allo scopo, con
una distesa di porcili, dove ogni famiglia allevava il suo bel maialino e
qualche volta, se l’ampiezza lo consentiva, anche due o tre.
Ogni giorno qualcuno
della famiglia era incaricato di recarsi al porcile, trasportando un pesante
secchio ripieno di una brodaglia semiliquida o di altre cibarie destinate al
maiale. Io, che ero il più piccolo della famiglia, ero generalmente esentato da
tale incombenza, ma ogni tanto il compito era affidato pure a me. In tali
circostanze ero costretto a miracoli di equilibrismo per evitare che la
brodaglia tracimasse e mi finisse addosso, cosa che non sempre riuscivo ad
evitare.
Mio padre, invece,
cercava quasi sempre di esimersi, nel timore di incontrare nei paraggi un tal
Michele Noce, nei confronti del quale nutriva una cordiale antipatia e che
inoltre, con tutto lo spazio a disposizione, aveva finito col costruire il suo
porcile proprio di fianco al nostro. Ma un pomeriggio, non ricordo per quale
motivo, toccò a lui. Arrivato a destinazione, vide che l’ingresso del nostro
porcile era in parte ostruito dalla presenza di un masso informe, che, a
guardarlo meglio, si appalesò per quello che effettivamente era: il trogolo del
porcile del Noce, lo scifo, come era comunemente chiamato.
Mio padre
probabilmente non ritenne vero di poter fare un dispetto al suo rivale. Fatto
sta che (questa fu la sua successiva versione) diede un calcetto allo scifo per
togliere l’ingombro, ma evidentemente non aveva fatto bene i suoi calcoli,
perché l’ingombro incominciò a rotolare, superò un dislivello di circa 3 metri,
finì su una pietraia e si adagiò al suolo dopo essersi spezzato in due parti
perfettamente uguali.
Stavano scendendo le
prime ombre della sera e la cosa poteva finire lì, senza che nessuno avesse
visto niente. E invece il diavolo quel giorno aveva deciso di metterci la coda,
perché da dietro il suo porcile apparve la testa di Michele.
-Hai visto il mio
scifo?
-Non ho visto niente
e non so niente.
-Come non sai niente?
se l’ho lasciato qui solo qualche minuto fa, il tempo di pulire e lavare il
porcile con qualche secchiata d’acqua!
-Ti ho detto che non
so niente.
Il Noce, sempre più
disperato, guardò verso il dirupo.
-E allora come si
trova là sotto? Pure spezzato! L’hai fatto apposta. Era uno scifo antico,
valeva un capitale.
- E’ vero che l’ho
spostato, ma, se si è rotto, era soltanto uno scifo.
-Ah! Così dici? Ci
rivedremo in pretura.
Dopo qualche mese,
quando ormai sembrava che la cosa fosse finita a tarallucci e vino, mio padre
ricevette da una guardia municipale una raccomandata, in cui gli si comunicava
che era stato denunziato da Michele Noce per danneggiamento di manufatto,
presunto reperto archeologico, che gli si chiedeva un congruo risarcimento e
che al contempo era invitato a trovarsi un difensore ed a presentarsi alla
vicina pretura di Santa Severina dove la causa sarebbe stata dibattuta il
giorno martedì, 19 maggio 1959.
Accompagnai io mio
padre quel giorno in pretura, dove arrivammo verso le sette del mattino con un
vecchio pullman che si arrampicava sui tornanti come una locomotiva del west.
Alle 8 in punto eravamo dietro la porta ancora chiusa, dove erano già in attesa alcune persone, tra cui Michele Noce con il suo avvocato, che
riconoscemmo essere tutte di Scandale.
Sulla porta era
affisso l’elenco delle cause del giorno: ne erano previste solo due, la
nostra per le ore 11 e un’altra per le ore 9. Potevamo andare un po’ in
giro, volendo, ma preferimmo restare, anche per la curiosità della prima causa,
che si preannunziava interessante per il clamore suscitato nei dintorni.
Presiedeva quel
giorno il pretore onorario Raffaele Scalfaro, famoso per la durezza delle sue
sentenze. Si trattava di un avvocato del posto che, in quei tempi in cui di
laureati in giro ce n’erano pochi, non disdegnava di incrementare le sue entrate facendo anche il professore di Educazione Fisica presso il locale Liceo e,
quando era necessario, di svolgere le mansioni di pretore facente funzione.
Alle ore 9 in punto
la corte era già insediata. A lato del pretore un vecchio cancelliere
annunziava l’inizio della prima causa: Tallarico contro Coriale.
Luigi Tallarico ed
Antonio Coriale erano gli unici due negozianti di stoffe di Scandale, ma
avevano avuto l’infelice idea di piazzare i loro negozi a poca distanza l’uno
dall’altro, sulla stessa Via Cafone del Molinaro, uno al numero 48 e l’altro al
numero 60, costruendoci sopra anche le rispettive abitazioni. In queste
condizioni avevano finito col covare un sordo rancore l’uno per l’altro, che li
portava ad odiarsi cordialmente e talvolta a farsi anche dispetti più o meno
dissimulati.
Chi covava più rancore
nei confronti dell’altro era il Tallarico, che, essendo stato il primo ad
aprire il suo negozio, considerava la sopraggiunta concorrenza del Coriale
nient’altro che un sopruso, un deliberato e cosciente sopruso. Ed il rancore
cresceva tanto più, quanto più egli vedeva che il sopraggiunto aveva successo, arrivando
talvolta ad abbassare i prezzi in modo sleale e plateale pur di rubargli la
clientela. Talché talvolta il Tallarico si lasciava andare a commenti piuttosto
sprezzanti nei confronti del concorrente, senza ritegno, quando, seduto davanti
all’ingresso del suo negozio, imprecava ad alta voce e si sfogava con i pochi
clienti che gli erano rimasti.
La cosa durava ormai da parecchi anni e
l’inimicizia si era trasmessa anche ai rispettivi figli, due per parte e tutti
maschi, che normalmente si ignoravano e, quando non potevano farne a meno, non
mancavano di riversare nelle loro parole tutto il disprezzo che i rispettivi
genitori avevano loro trasmesso.
Una sera sul tardi
Luigi Tallarico stava rientrando a casa ed improvvisamente avvertì il bisogno
irrefrenabile di svuotare la vescica. Poteva attendere di arrivare a destinazione, ma
colse l’occasione per fare un dispetto al rivale. Si accostò alla serranda abbassata del di lui negozio, deciso ad irrorarla, quando si accorse che nella serranda c’era un
foro. Tanto meglio. Vi infilò il suo attrezzo e svuotò la sua capiente vescica
all’interno del negozio.
Ma, verso la fine
dell’operazione, un grido lacerante lo atterrì e lo fece improvvisamente
ritrarre. La moglie del Coriale, attardatasi a pulire, aveva visto tutto ed il
marito, pure lui presente, corse ad aprire la serranda dall'interno cogliendo
il Tallarico con le mani tra le gambe, ancora alle prese con la sua patta.
Tallarico fu
denunziato ed anche lui, in quel giorno di maggio del 1959, si ritrovò a
doversi difendere di fronte al terribile pretore Scalfaro.
-Signor pretore,
esordì, riconosco di avere sbagliato. Ma non ce la facevo a resistere, sicché
mi sono deciso ad alleggerirmi dietro la prima porta che ho visto.
-Ma si dà il caso
che quella porta era proprio la serranda del negozio del Coriale.
-E’ vero, ma non me
ne ero accorto. Era tutto buio, c’era la luna nuova, non si vedeva niente.
E’ stato solo un caso.
-E anche l’immissione
nel buco è stato un caso? Almeno lì ci vuole una certa precisione, bisognava
vederci bene per centrare il buco.
-Anche lì è stato un
caso, signor pretore, solo un caso, uno sfortunatissimo caso. Capita una volta
su mille, ma capita.
Fu poi la volta dei
coniugi Coriale e il marito depose per primo.
-Cosa ricordate di
quella sera?, gli chiese il pretore.
-Signor pretore, io
quella sera dovevo fare dei conti e per questo mi ero fermato nel negozio dopo
la chiusura. Mia moglie si era fermata anche lei e ne approfittò per fare le
pulizie, che in genere fa la mattina prima dell’apertura.
-Ma come mai la
serranda presentava quel buco?, riprese il pretore.
-Il buco c’era da
tanto tempo. Una volta lì c’era una serratura, ma poi ho cambiato serratura ed
il buco c’è rimasto. Non potevo sapere che quello sporcaccione ne approfittava
per farci i suoi bisogni.
Fu poi il turno
della signora Coriale e, mentre lei a capo chino si avviava nello spazio
riservato, l’attenzione dei presenti divenne subito vivissima. La signora si bloccò davanti al pretore, giurò di dire la verità, tutta la verità,
nient’altro che la verità e subito dopo affermò, su suggerimento del suo
avvocato, che intendeva deporre a porte chiuse. Un prolungato oh di delusione
echeggiò dalla parte del pubblico, che però, su ordine del signor pretore, fu
costretto ad accomodarsi fuori.
Arrivò infine il
turno degli avvocati. Quello dell’accusa parlò a lungo e chiese si tenesse conto
dell’aggravante della premeditazione, perché solo con la premeditazione,
secondo lui, si poteva portare a compimento un reato così odioso e così grave.
Chiese inoltre che nella quantificazione dei danni morali, il signor pretore
tenesse conto della particolare sensibilità della signora Coriale, la quale,
oltre ad essere stretta collaboratrice del parroco, era anche Presidente della
locale sezione femminile dell’Azione Cattolica e, in tale veste, aveva subito
un particolare trauma psicologico di fronte allo spettacolo obbrobrioso di cui
il Tallarico si era reso colpevole. L'avvocato della difesa parlò brevemente, non aggiunse molto a quanto già si sapeva e si limitò, o quasi, ad invocare la clemenza della Corte. Volle soltanto contestare quelle che, secondo lui, erano le eccessive pretese risarcitorie della controparte, in relazione al fatto che la signora Coriale si era messa a gridare alla fine e non certo all'inizio dello svuotamento vescicale del suo assistito.
Dopo di che il pretore Scalfaro emanò la
sentenza. Il Tallarico era condannato, con sospensione condizionale della pena,
a due mesi di reclusione per atti osceni in luogo pubblico, al pagamento delle
spese processuali ed al risarcimento dei danni materiali e morali, che erano
quantificati in lire 300.000, una cifra mostruosa per quei tempi.
Dopo un intervallo
di circa mezz’ora il cancelliere annunziò l’inizio della seconda causa. Era il
nostro turno. Su un tavolo a lato troneggiava il famoso scifo, sbrecciato in
più punti ed in pessime condizioni generali a quel che era dato vedere.
Fu convocato
dapprima Michele Noce.
-Come mai, gli
chiese il pretore, avete chiesto il risarcimento di un manufatto di poco
valore, quale comunemente è da considerarsi un trogolo o scifo, che dir si
voglia?
-Signor pretore,
rispose il Noce, quello non era uno scifo, o meglio, era pure uno scifo, ma
soprattutto era un bene antiquario ed archiologico. Io quello scifo l’ho
trovato quando ho scavato nella mia terra per costruirci una pagliara. Io ho
visto che di sopra c’era pure scritto e, siccome io non ho molta coltura, l’ho
portato a leggere a don Ciccio Tricoli, l’Ufficiale postale, che mi ha detto
che era scritto in greco e voleva dire “scava che truovi”.
-E voi avete
scavato?
-Sì, ho scavato, ma
non ci ho trovato niente, anche se io mi credevo che ci trovavo un tesoro. Però
lo scifo me lo sono tenuto, perché era di valore, anche se ci facevo mangiare
il maiale. Però ora voglio essere pagato.
- E non potevate
aggiustarlo?
- Ho cercato di
aggiustarlo con il cemento, ma non è venuto bene. Ed anche il maiale pare che
se n’è accorto, perché per parecchi giorni non ha mangiato più come una volta e
si cresceva male. E comunque come archiologia non vale più come prima.
Fu poi il turno di
mio padre il quale cercò di dimostrare che il calcio allo scifo era stato
accidentale e dovuto solo al fatto che, a causa di quell’ostacolo, egli aveva
rischiato di finire per terra.
L’avvocato di
Michele Noce, un vecchio trombone, esordì dicendo che gli oggetti debbono
essere valutati in base al loro valore affettivo, non commerciale e, dopo vari
sproloqui, così concluse: “Anche un trogolo, in una terra che si onora di aver
fatto parte dell’antica Magna Graecia, può avere la sua dignità artistica.
Perché è certo che su di esso si rilevano caratteri dell’alfabeto greco, come
l’illustrissimo signor pretore potrà personalmente rilevare, se conosce la
nobilissima lingua di Omero.(Il pretore faceva segno di no con il dito). E noi
non sappiamo se quel trogolo è stato importato da Atene e magari è stato utile
ai porcari di Pericle, del grande Pericle. O se, per converso, esso è stato
costruito nella Magna Graecia, magari a Crotone, e quindi potrebbe aver
alimentato i maiali di cui si è cibato il divino Zeusi, all’epoca in cui egli
dipingeva il famoso ritratto di Elena, avendo come modelle le cinque più belle
vergini della città.”
A questo punto
l’avvocato si fermò di botto, si girò attorno come aspettasse un applauso, ma,
visto che gli astanti dimostravano una certa freddezza, si calmò
bofonchiando e si pose a sedere.
L’avvocato di mio
padre, il giovane avvocato Giuseppe Apa, che oltre tutto era anche arrivato in ritardo,
poco prima dell’inizio della causa, non mancando di procurare a mio padre
qualche preoccupazione, si alzò in piedi con molta calma e con altrettanta
calma iniziò la sua perorazione. Notai che
strascicava leggermente le parole, ma si dimostrò molto sicuro ed
efficace. Iniziò facendo riferimento alla memoria difensiva allegata, espose
brevemente i punti principali della lite e così concluse: "Il mio assistito si
dichiara pentito del danno arrecato alla controparte e comunque è disponibile a
riconoscere un equo risarcimento del danno causato al manufatto, a condizione
però che esso venga considerato per quello che effettivamente è, cioè uno scifo
destinato all’alimentazione dei maiali, e non un oggetto appartenuto a Pericle
o a Zeusi. E dico questo perché i presunti caratteri dell’alfabeto greco
rilevati su di esso sono in realtà semplicemente dei graffi provocati dall’uso
e non certo quello che la controparte pretende che siano. Chiedo altresì il
compenso delle spese processuali".
Dopo una ventina di
minuti il pretore emanò la sentenza: Scaramuzzino Francesco era condannato a
pagare alla controparte la cifra simbolica di 1.000 lire, non potendosi
riconoscere al manufatto nessun valore artistico o archeologico. Le spese
processuali erano ripartite per compenso, nel senso che ognuna delle parti
pagava il suo avvocato.
Oggi le preture non
esistono più: ci sono i giudici di pace, davanti ai quali si trovano
soltanto delle anonime scrivanie e, qualche volta, un paio di sedie. Lì ci si
siede per raccontare le vicende e gli svolgimenti di una vita che non è più
quella di 40-50 anni fa: è la vita nella quale si parla di autovelox e di
litigi condominiali, di locazioni non pagate e di risarcimenti
assicurativi, non più di dispetti a base di pipì o di trogoli scassati.
Ezio Scaramuzzino
Bellissimo racconto, mi sono divertita, mi ricorda, pur nella diversità dei due episodi, La Giara di Pirandello
RispondiEliminaCaro Prof.
RispondiEliminaOgni tanto visito il suo blog sia per nostalgia del paese e sia perché
i suoi scritti/racconti li trovo molto interessanti. La sua scrittura è fluida, piacevole, appassionante, in una lingua grammaticalmente perfetta, di una volta, rare persone scrivono come Lei. "Un giorno in procura" poi mi ha entusiasmato, mi sono sbellicata dalle risate, e tra il comico e il drammatico ho rivissuto quel poco che ricordo del paese. All'epoca era proprio così e la sua descrizione dei fatti mi ha riportato in mente la realtà dei personaggi implicati nelle storie. Qualcuno lo ricordo, come suo papà, un tipo molto introverso e di poche parole, mentre il Noce non mi viene in mente ma conoscendo gli altri "Noce" posso immaginare. Continui pure con i suoi racconti per la mia gioia.
Posso sapere chi sei? Quello che scrivi mi fa molto piacere.
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