martedì 28 febbraio 2017

Come fossi un uomo (romanzo) di Giuseppe Pipino


Ho ricevuto da un amico un bel libro, Come fossi un uomo, di Giuseppe Pipino, ed. L’Espresso, 2012, che ho letto quasi d’un fiato. Lo consiglio a chi ha voglia di distogliere ogni tanto lo sguardo dalla TV e di dedicare qualche mezzoretta del suo tempo alla lettura di qualcosa di bello e di intelligente. L’autore è un ingegnere nucleare e sostiene che la conoscenza derivante dall’intuizione è non meno importante di quella derivante dall’osservazione, che è figlia della scienza. Giuseppe Pipino poteva rivolgere la sua attenzione allo studio di protoni, elettroni e neutroni e invece ha preferito occuparsi, almeno in questo lavoro, di argomenti storico-religiosi.
Il libro infatti è una rivisitazione della vita di Cristo, fondamentalmente nella sua dimensione umana, raccontata secondo un interessante ed originale punto di vista: molti capitoli, specie all’inizio, sono dedicati ciascuno ad uno dei personaggi che hanno contato qualcosa nella vita di Gesù ed ognuno di essi racconta in prima persona le vicende di cui ha avuto la fortuna di essere privilegiato testimone. Come in un gigantesco Rashomon, le varie testimonianze si compongono fino a formare il puzzle che fa da sfondo all’avventura umana di Gesù, l’unico a non fornire la sua personale versione dei fatti. L’autore inoltre dimostra di avere una vasta ed approfondita conoscenza dei testi sacri e quindi si muove sempre molto agevolmente tra i fatti, storici, privati, a volte quasi oscuri, di quei primi decenni della nostra Era.
E’ una sorta di nuovo Vangelo, avvincente, alla stregua di uno dei tanti vangeli apocrifi che nel corso dei primi secoli sono nati intorno alla figura del Cristo, anzi lo si potrebbe definire il Quinto Evangelio, se non fosse per il fatto che tale denominazione è stata già utilizzata dallo scrittore Mario Pomilio in un suo famoso libro.
Ci passa davanti agli occhi la vita di Gesù, dalla nascita a Betlemme alla  crocifissione sul Golgota. E questa vita è raccontata, descritta, ampliata, collegata, trasfigurata, come in un grande affresco, da un autore che ha la voglia di raccontare e sa farsi capire da un pubblico che vuole conoscere e, soprattutto, vuole sapere di più rispetto a quello che già si sa dalla lettura dei cosiddetti libri canonici.
Il libro non ha pretese scientifiche e non mancano alcune ricostruzioni che possono suscitare perplessità nel lettore più legato al tradizionale racconto della vita di Gesù, fino al sorprendente finale, decisamente fuori del comune  e tale da risultare la spia più sicura e convincente delle capacità narrative  dell’autore. Il libro insomma si presenta esplicitamente come un romanzo, secondo quanto lo stesso autore indica in copertina, ma, dopo gli abusi e gli sproloqui degli ultimi anni, si tratta di un romanzo che ritorna alle migliori tradizioni di questo genere letterario. Lo si potrebbe definire un romanzo storico, secondo una tradizione letteraria che ha il suo più illustre esponente in un autore che, scusate se è poco, si chiama Alessandro Manzoni.
Quanto allo stile, non si può che dirne bene. L’autore non segue le mode dei nostri giorni, che indulgono allo sperimentalismo linguistico. Egli scrive e racconta con l’atteggiamenti tipico di chi ha il piacere di raccontare. Semplicemente scrive in lingua italiana e lo fa con l’intenzione di farsi capire e di rendere agevole la lettura, aggiungendo di suo un tono tra il poetico e il favoloso, che costituisce secondo me il fascino non ultimo della bellezza di questo libro.
Difetti? Forse qualche refuso di troppo e una certa tendenza a presentare un numero eccessivo di  personaggi, anche secondari, con il rischio di creare un po’ di confusione nel lettore meno attento, con tutti quei nomi ebraici, che spesso si ripetono pur appartenendo a persone diverse. Se poi si vuole essere particolarmente pignoli, è anche possibile rilevare una certa forzatura ideologica, che induce a presentare alcuni personaggi, in particolare Giuda,  almeno nella fase della loro prima attività, più come dei guerriglieri in lotta contro l’occupazione romana, che non come apostoli di una nuova religione. Un’ultima annotazione: quando ho finito il libro, mi è dispiaciuto, perché avrei voluto che continuasse. Ho pensato che il libro fosse troppo breve, poi ho controllato il numero delle pagine, 208, ed ho capito che ero stato io troppo veloce.
Il libro è facilmente reperibile ed acquistabile in Internet, immettendo i dati in un qualunque motore di ricerca. Giuseppe Pipino è anche autore di altri due romanzi:
Il volto oscuro del Signore (Edicom, 1998);
Aspro-monte. Un sottile, instabile crinale (L'Espresso, 2012).

Ezio Scaramuzzino

domenica 26 febbraio 2017

Vola lo spirto (poesia inedita) di Alfredo Giglio




Vola lo spirto su nel vento
E l’anima si disperde
Nel tenue chiarore
D’una luna languente.
Il buio ammanta il dolore
E rende vota la mente,
Mentre il mio martiro
Dilegua  all’orizzonte,
Ch’il sospiro racchiude
D’una Terra agonizzante.
Muore anche la speme
D’un viver differente
Del futuro seme
E perisce l’ideale,
Che nato era nell’incanto
Del sogno mio più vero,
Ch’or manifesta il male.
Il silenzio d’una notte
Che sembra eterna
Spegne ogni rumore.
Anche le voci dell’etere,
Che non hanno più onore
S’acchetano,
Senza svelar la sofferenza
E l’arroganza
Di gente oppressa
Da vile minoranza.
Si rinnova la storia,
Mentre ch’il tempo scorre
Graffiando la memoria,
E rende l’ore
Ancor più corte,
E par che trascini l’avvenire
Nel sonno della morte.

Alfredo  Giglio


venerdì 24 febbraio 2017

Jendu Vinendu12: De Filippi-Roesch-Zeman-Le Pen


Maria De Filippi
La De Filippi non ha bisogno di essere presentata: è talmente popolare da essere forse diventata il simbolo stesso della Televisione. La trovi quasi in tutte le ore su qualcuno dei vari canali Mediaset, tanto che ti viene il dubbio se lei è una dipendente o la proprietaria di tale gruppo televisivo. Solo alla RAI ancora non aveva messo piede, ma, con la partecipazione a San Remo, ha colmato la lacuna.
Non c’è bisogno di dire che è brava, perché lo è veramente, sia come presentatrice, sia come autrice. Uno dei suoi programmi culto è senz’altro C’è posta per te, che sfrutta ampiamente l’industria del dolore e dei drammi familiari, con un successo ininterrotto che dura ormai da più di dieci anni.
E’ uno dei pochi programmi televisivi che seguo con un certo interesse e da qualche tempo ho notato che al successo contribuiamo quasi esclusivamente noi meridionali. Non ci fossimo noi, la trasmissione dovrebbe chiudere e difatti tutti i casi presentati da Maria hanno la loro origine nelle regioni del Sud, con netta prevalenza della Sicilia.
Da che dipende? Probabilmente dal fatto che noi meridionali siamo più inclini alla teatralizzazione del dolore, nella quale ritroviamo uno sfogo alle nostre passioni e al nostro male di vivere. I settentrionali, invece, sono più riservati e, se proprio debbono affrontare un dramma familiare, ricorrono all’avvocato. In alternativa non vanno a C’è posta per te

Paul Roesch
Se si chiede in giro chi è Paul Roesch, probabilmente nessuno sa rispondere ed è giusto che sia così. Ma siccome oggi ogni sconosciuto, per quanto idiota, ha diritto al suo quarto d’ora di notorietà, è bene allora far sapere che Paul Roesch è il sindaco, del partito dei Verdi, di Merano e che nei giorni scorsi è diventato famoso per aver pulito le scarpe ad uno dei tanti clandestini liberamente circolanti nel nostro Paese.
In fondo Roesch ha fatto lo sciuscià, quello che gi scugnizzi napoletani del secondo dopoguerra facevano con gli Americani vincitori. Nel caso specifico egli è risultato solo in anticipo sui tempi, perché, con questi chiari di luna, non penso ci siano dubbi su coloro che saranno i vincitori e i dominatori  tra qualche anno. Inoltre egli ha solo dato una rinfrescata ad una illustre tradizione, sempre fiorente nel nostro Paese, quella dei lustrascarpe, che  in Italia  hanno anche una qualità particolare: stare sempre con il naso all’insù, per capire come spira il vento ed essere pronti a posizionarsi. 
Da  Roberto Benigni che abbracciava Berlinguer a Sandro Bondi che dedicava le sue poesie a Berlusconi, solo per limitarmi ad un paio di esempi, in Italia c’è sempre stata una rigogliosa fioritura di lustrascarpe. E poteva mancare papa Bergoglio? Pur di farsi accettare all’Università Roma3, dove qualche anno fa avevano impedito di parlare a Benedetto XVI, ha lustrato le scarpe al corpo accademico ospitante, non vergognandosi di tenere un discorso in cui non ha mai nominato né Dio, né Gesù Cristo.
Un’ultima annotazione. I Meranesi, in netta maggioranza, si sono lamentati del gesto del loro sindaco. Di che si lamentano dopo averlo eletto? Era un Verde, Grün nell’altoatesina Merano.

Zdeněk Zeman
Leggo da qualche parte che la squadra di calcio del Pescara, dopo 43 partite di astinenza, riesce a vincere una partita in Serie A, domenica 19 febbraio 2017, e la vince con il risultato rotondo di 5 a 0. Si dà il caso che la vittoria arriva dopo il cambio dell’allenatore, da Oddo a Zeman. Tutti conosciamo Zdeněk Zeman, simpatico allenatore boemo giunto in Italia tanti anni fa e fautore di una sorta di calcio totale che poi avrebbe fatto la fortuna di Arrigo Sacchi. Zeman è bravo, ma lui stesso è il primo a riconoscere di non essere in grado di fare miracoli. Alla luce di queste dichiarazioni, come si spiega il clamoroso exploit del Pescara? Gli intenditori riferiscono di una congiura dei giocatori che, per una sorta di incompatibilità con il vecchio allenatore, giocavano a perdere. Inaudito! Giocatori, pagati fior di quattrini, che vigliaccamente facevano del male alla società, ai tifosi, alla città e anche a se stessi. Mi ricordano tanto quei mariti, che, per fare un dispetto alla moglie…


Marine Le Pen
Una buona notizia. Mentre le periferie di Parigi bruciano per le rivolte dei migranti, la magistratura francese, non molto diversa da quella italiana, ha ordinato perquisizioni nella sede del Front National ed ha operato un paio di arresti. L’accusa, risibile, è che la Le Pen avrebbe pagato due impiegati con i fondi del parlamento Europeo invece di pagarli con quelli del partito. Dov’è la buona notizia? La buona notizia è che, se la magistratura ha deciso questa grottesca operazione, significa che la Le Pen ha buone possibilità di vincere, non solo al primo turno, ma anche al secondo, dove finora le previsioni la vedevano soccombere di fronte a Macron, espressione dell’establishment francese e soprattutto espressione della banca  Rotschild. L’operazione non ha inciso sui sondaggi, che restano sempre favorevoli alla Le Pen, anche se questo ovviamente non garantisce la sua elezione. 
Una cosa è certa: tutto l’andamento della campagna elettorale ci sta presentando una Marine Le Pen, donna, come unico candidato con gli attributi, specie se paragonata al gollista Fillon, colto con le mani nella marmellata a regalare stipendi ai suoi familiari, o a Macron, ex ministro di Hollande, il che è tutto dire.
      Di recente la Le Pen si è rivelata anche come campione della laicità. Durante una visita in Libano, si è rifiutata di coprire il capo con il velo ed ha fatto saltare un incontro con il Gran Muftì. Quanta differenza con le nostre femministe e con le nostre Boldrini, sempre pronte a firmare manifesti contro Trump e contro il sessismo, ma sempre pronte ad indossare il velo ed a farsi sottomettere, quando c’è di mezzo l’Islam.
Ezio Scaramuzzino



mercoledì 22 febbraio 2017

Siamo ancora liberi?

*
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. (art.21 della Costituzione Italiana). Ma è proprio così? Probabilmente qualcuno non sa che tale diritto patisce molte limitazioni.
Ad esempio provate a dire pubblicamente che la Shoah è una bufala, inventata dagli Ebrei per continuare tranquillamente a dominare il mondo. Ovviamente la bufala è dire che la Shoah è una bufala, anzi, a volerla dire tutta, un’idea del genere è roba da mentecatti. Ma si può impedire a qualcuno di dire scemenze? O meglio, si è ancora liberi di dire scemenze, oppure si è obbligati a ripetere quello che dicono i più? Beh, già in molti Paesi certe scemenze non si possono dire pubblicamente e, se le dici, commetti un reato.
Ancora. Provate a salutare qualcuno con la mano tesa ed il braccio alzato di circa 150°. La legge Mancino, n. 205 del 25 giugno 1993, sostiene che state facendo apologia del Fascismo e state commettendo un reato. Tutto questo in un mondo nel quale le uniche manifestazioni di autentico Fascismo sono quelle degli Antifascisti. Inutile dire che lo stesso reato non è previsto per chi saluta con il pugno chiuso.
Ancora. Provate a dire che due gay, che si baciano in pubblico, vi fanno schifo. Potete solo pensarlo, perché, se lo dite pubblicamente, commettete il reato di omofobia.
Ancora. Provate a dire che l’Islam è una religione violenta e che Maometto è assassino e pedofilo. Potete solo pensarlo, perché, se lo dite pubblicamente, commettete il reato di islamofobia.
Sia ben chiaro: in ambito europeo la legislazione varia da stato a stato, ma la tendenza è ormai consolidata ed è scontato ritenere che quanto prima i cittadini europei saranno tutti uniformati sugli stessi parametri legislativi, un po’ come è avvenuto per la misura delle banane e dei cetrioli.
Esistono poi tanti altri atteggiamenti e, quel che è più grave, tante altre opinioni, che ancora non sono reato e che per il momento sono solo condannati come riprovevoli e disdicevoli dal politicamente corretto, ma, c’è da giurarlo, quanto prima diventeranno reato.
Solo alcuni esempi.
Ritieni che l’Italia è invasa dai clandestini? Sei razzista e xenofobo.
Ritieni che le quote rosa nelle liste elettorali si addicono più alle batterie di polli che non agli esseri umani? Sei maschilista.
Ritieni che le sinistre sono alleate delle banche e del grande capitale? Sei populista.
Ritieni che Rosy Bindi è racchia? Sei sessista
Il PUD (pensiero unico dominante), diffuso dal politicamente corretto e dai media mainstream, non tollera eccezioni, tanto che ormai qualche idea  anticonformistica trova ricetto quasi esclusivamente nei social network (Facebook, Twitter, ecc.). Ma anche questo non so fino a che punto potrà durare, perché già i detentori del PUD hanno incominciato a protestare contro quelle che essi chiamano le false notizie (fake news) diffuse sul web. Prima o poi ci toglieranno anche questi ultimi spazi di libertà, non c’è da farsi illusioni.
E’ pur vero che il PUD negli ultimi tempi ha conosciuto qualche clamorosa sconfitta (vittoria di Trump, Brexit, sconfitta di Renzi al referendum), ma chi lo detiene e lo gestisce è ancora, e si sente, potente ed invincibile, sicché è da considerarsi il nemico primo, ultimo e definitivo della libertà degli esseri umani a livello planetario e bisogna essere vigili.
Verrà il giorno in cui per scrivere un libro, un articolo di giornale, per preparare una trasmissione o esprimere delle idee sarà necessario disporre del visto di conformità o del timbro della Boldrini, di papa Francesco o del giornale La Repubblica o del Corriere.
Saremo felici quel giorno perché saremo tutti omologati a livello planetario e non ci saranno più differenze genetiche tra gli individui: esisterà un solo tipo di ominide, l’homo oeconomicus consumptor, dedito esclusivamente a consumare, senza farsi troppe domande. Una sola differenza sarà consentita, anzi favorita, tra gli umani, quella relativa al reddito, per cui ci saranno pochi superricchi  tra i detentori del potere e folle sterminate di superpoveri, ma questo è un altro discorso.
Saremo tutti felici quel giorno anche per un altro motivo, perché diremo tutti le stesse cose. Diremo che non esistono più le mezze stagioni, che la vita è una valle di lacrime, che gli immigrati ci pagheranno la pensione, che  l’Euro è la salvezza ed il futuro dell’UE, che le Crociate furono un atto di aggressione contro il pacifico Islam, che i Partigiani ci hanno liberato dal Fascismo, che Trump è un razzista xenofobo, che Berlusconi è soltanto un puttaniere.
George Orwell in 1984 aveva previsto l’avvento di un regime con un Ministero della verità secondo cui “ La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è cultura”. Quel giorno Orwell si rigirerà nella tomba e sghignazzando potrà dire: ”Io avevo visto giusto”.
Ezio Scaramuzzino

* Eugène Delacroix, La libertà che guida il popolo, 1830, Parigi Louvre. Olio su tela, 260x325 cm


lunedì 20 febbraio 2017

Anonimo veneziano

Anonimo veneziano, un film del 1970, con Tony Musante e Florinda Bolkan, regia di Enrico Maria Salerno, su una sceneggiatura di Giuseppe Berto. Fu il film dei nostri anni giovanili, delle nostre passioni, un film  di amore e morte che alimentò il romanticismo perenne di una generazione che amava contestare la società e la vita, ma era disperatamente innamorata della vita.
Il film è anche una meditazione sul senso della vita e della morte: laceranti entrambe e dolorose. Il tutto sullo sfondo di una città, Venezia, che sembra morire anch’essa e che qui assurge a simbolo di un mondo che sta per scomparire.
Il film ebbe un incredibile successo e provocò interesse ed emozioni profonde, più del contemporaneo, caramelloso e mieloso Love story. Al successo contribuì molto la fortunata colonna sonora, basata sul brano diretto dal protagonista in chiusura, il Secondo tempo, Adagio, dal Concerto in Do minore per oboe, archi e basso continuo di Benedetto Marcello, musicista veneziano del Settecento, e che divenne celeberrimo grazie e assieme al film.
Enrico è un oboista della Fenice di Venezia. Appreso di essere ammalato di un tumore incurabile, invita a Venezia sua moglie, da cui è separato da anni, e non le rivela che sta per morire. Lei, Valeria, acconsente, nonostante il timore che la richiesta possa rivelarsi un ricatto nei confronti del suo nuovo compagno di vita, con cui lei ha costruito una nuova famiglia.
Enrico e Valeria trascorrono la giornata in una Venezia splendida ma profondamente malinconica e decadente e alternano furiosi alterchi a teneri momenti. Lei capisce di amare ancora Enrico e, quando questi le confida di essere ammalato e di avere ancora poco da vivere, gli si concede un'ultima volta, nella consapevolezza che oramai è troppo tardi per tornare indietro e cambiare il corso delle loro vite.
Alla fine della giornata, i due si congedano, consapevoli del fatto che non si rivedranno più. Mentre lei si allontana in lacrime dalla chiesa sconsacrata trasformata in studio di registrazione, Enrico dirige un'orchestra di studenti nel concerto di un "anonimo" autore di origine veneziana. E questo concerto sembra scandire nel suo ritmo straziante i tempi di un amore finito e di una vita che sta per spegnersi, come una candela.  
Ezio Scaramuzzino
Di seguito è possibile vedere il finale del film. Anonimo veneziano.




sabato 18 febbraio 2017

Perché l’Italia affonda di Alfredo Giglio

Alfredo Giglio è un poeta crotonese, raffinato e gentile. Questo però non gli impedisce di guardarsi attorno e di cercare di capire i problemi del mondo che lo circonda. Proprio per tale motivo egli rivolge spesso la sua attenzione anche ai problemi economici del nostro tempo. Fatte le debite proporzioni, mi ricorda Ezra Pound, il grande poeta americano, che alternava la poesia dei Pisan Cantos alla composizione di saggi sui problemi della moneta e dell’usura.          Ezio Scaramuzzino 

Vorrei ripercorrere brevemente la storia d’Italia dal 1980 ad oggi, per spiegare in modo semplice, senza ricorrere ad argomentazioni filosofiche, le vicende che ci hanno portato ad essere uno stato povero e vassallo della Germania.
Tutto questo si è potuto verificare, io credo, per il disegno criminoso della finanza mondiale, che ha favorito la distruzione dell’industria italiana, concorrente di quella tedesca, l’indebitamento dello stato italiano, realizzato oltretutto con la connivenza dei nostri politici, miopi e corrotti, e la globalizzazione dei mercati, con conseguenti delocalizzazioni incontrollate, disoccupazione, forti guadagni per gli speculatori finanziari.
In pratica si è verificato l’asservimento della politica alla grande finanza. Tutto questo è incominciato quando dall’economia keynesiana, che prevedeva una più equa distribuzione dei beni e aveva favorito anche in Italia la creazione di uno stato sociale, si è passati alla economia neoliberista di Milton Friedman, che teorizza il massimo profitto individuale, negando ogni diritto al lavoratore, che in tal modo ha solo doveri da onorare e nessun diritto da far valere.
Ma procediamo con ordine. Perché la grande Finanza prevalesse sulla politica e ne diventasse guida, bisognava togliere agli stati nazionali europei la sovranità monetaria, imponendo la moneta unica, l’Euro, gestita ed emessa solo dalla BCE. Alla creazione dell’Euro si è poi aggiunto il pareggio di bilancio, quasi imposto a tutti gli stati e raramente ottenibile se non a costo di grandi sacrifici. In fondo i guai dell’Italia sono la conseguenza di tali problemi: perdita della sovranità monetaria con conseguente ricerca di finanziamenti ad alto tasso d’interesse, globalizzazione senza regole, per cui tutto deve essere regolato dai mercati, pareggio di bilancio. Tutto ciò porterà, ed in parte ha già portato, ad una condizione generale per cui i ricchi saranno sempre più ricchi ed i poveri saranno sempre più poveri, dato che i mercati hanno regole imposte dai ricchi, non certo dai poveri. Avremo inoltre la grande fortuna di conoscere un nuovo Medioevo prossimo venturo, come recitava il titolo di un famoso libro di Roberto Vacca, con eventuali ritorni allo schiavismo ed alla servitù della gleba.
A voler essere un po’ più precisi, in Italia i guai iniziarono nel 1981, quando il ministro Andreatta diede la prima picconata al nostro sistema finanziario ordinando, con una semplice lettera e senza discussione parlamentare all’allora governatore Carlo Azeglio Ciampi, di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, allo scopo, velleitario e pretestuoso se osservato col senno di poi, di ridurre il debito pubblico. Semplicemente Andreatta e Ciampi erano in malafede, perché il loro unico, vero intento era quello di spingere l’Italia nei parametri soffocanti dello SME, anticamera dell’Euro, e quindi di favorire una maggiore integrazione dell’Italia nel sistema Europa. Da allora il nostro debito pubblico ha cominciato a galoppare a briglie sciolte e solo in seguito si è venuti a sapere, ma senza eccessivo rilievo, che in realtà la Banca d’Italia è diventata una banca privata, ha i suoi maggiori azionisti nei grandi gruppi bancari come Unicredit, Banca Intesa e Monte dei Paschi di Siena, che la quota azionaria del Tesoro si è ridotta al solo 5%.
I nostri titoli di stato, piazzati pertanto sul mercato mondiale e non più prevalentemente interno come accadeva una volta, sono finiti soprattutto nella mani di Goldman Sachs, di Morgan Stanley e di JP Morgan ed anche la nostra sovranità monetaria ha cessato di esistere.
Recentemente si è appreso che persino l’oro della Banca d’Italia, la terza riserva mondiale, pari a 2.452 tonnellate di oro puro, ha preso il volo. Nei forzieri di via Nazionale a Roma ne sono rimasti solo 1.199 tonnellate e il resto si trova, si dice per ragioni di sicurezza, presso la Federal Reserve, presso la Banca Centrale Svizzera e presso la Banca d’Inghilterra. Ma ho motivo di ritenere che la scusa della sicurezza sia una bufala, grande quanto una casa, che copre, o cerca di coprire, problemi molto più serî.
Abbiamo visto come sia stato facile perdere la sovranità monetaria e far sparire metà dell’oro nazionale, di proprietà del popolo italiano e quindi inalienabile, grazie all’insipienza e alla connivenza di tanti esponenti politici, che hanno portato allo sfascio questa nostra Italia, nel complice silenzio dei grandi mezzi di comunicazione.
La situazione dell’Italia è certamente drammatica, ma ha avuto precedenti illustri, come nel caso della Grecia e quello, non meno famoso e drammatico, dell’Argentina, che ha dovuto ufficialmente dichiarare default. I guai degli altri però ci consolano poco: quello che sappiamo è che il nostro gigantesco debito pubblico ci pone costantemente sotto la spada di Damocle delle agenzie di rating, che fanno capo alla grande finanza americana, e della Germania, alla quale, vale la pena ricordarlo, fu condonato un debito di 15 miliardi di marchi nel 1953.
L’FMI e la BCE decidono dei destini degli Stati membri: entrambi hanno da sempre l’obiettivo di aumentare, non di risanare come ufficialmente dicono, l’indebitamento di alcuni paesi, in particolare quelli più deboli, come Argentina, Grecia, Italia e Portogallo. Il FMI, invece di operare secondo principi mutualistici, opera in modo palesemente vessatorio e, per fare ciò, si serve, nei suoi rapporti con l’Italia, di tre furbi paladini, che agiscono da vera e propria quinta colonna: Mario Draghi, Mario Monti e Pier Carlo Padoan.
 Tra l’altro Mario Draghi, dopo avere insegnato a Washington, è diventato consulente di Goldman Sachs e, insieme con i suoi due degni compari, ha suggerito alla Grecia, all’inizio del 2001, l’acquisto di alcuni prodotti finanziari diventati poi famosi con il nome di derivati, ideati e gestiti proprio da Goldman Sachs, JP Morgan e Merryl Linch. Alla fine dello stesso anno 2001 questi derivati hanno portato il governo greco al collasso, perché i profitti, alti in un primo momento come uno specchietto per le allodole, sono improvvisamente crollati, rivelandosi per quello che effettivamente erano, e cioè una solenne fregatura. Oggi in Grecia c’è una continua protesta popolare, che rischia di portare allo sfascio delle istituzioni, ma nessuno ne parla, perché è stato messo il bavaglio anche alla stampa.
Nell’estate del 2011 Mario Draghi è passato a dirigere la Bce e nel novembre dello stesso 2011 Mario Monti, imposto sempre dall’Europa, veniva chiamato da Giorgio Napolitano a formare un governo tecnico. Si consumava così il golpe ai danni di Berlusconi, che aveva avuto il grande torto di opporsi alle indicazioni dell’UE e, soprattutto, aveva rifiutato le offerte dell’FMI, dicendo che l’Italia era pronta a riprendersi la sua sovranità monetaria. Lo stesso Berlusconi però, piuttosto stranamente, avrebbe appoggiato il suo successore.
I danni del governo tecnico di Monti e del successivo governo di quel bullo di campagna che si chiama Matteo Renzi sono stati incalcolabili. Ne riparleremo.
Ci tocca solo aggiungere ai nomi dei già citati traditori del popolo italiano quello di Romano Prodi, che, pur di aderire allo sciagurato euro, svalutò la lira del seicento per cento e truccò i bilanci, con la complicità del ministro Carlo Azeglio Ciampi.
Questi quattro signori si trovano ora sul banco degli imputati presso il Tribunale di Trani, che, pur tra mille difficoltà, sta cercando di fare luce su molte oscure vicende italiane degli ultimi anni.
 Il 3 gennaio 2012 Mario Monti, presidente del Consiglio e ministro dell’economia e finanze, ha pagato alla Morgan Stanley, della quale il figlio Giovanni era vice presidente, la somma di due miliardi e mezzo di euro, sotto forma di sanzione, a causa del declassamento, falso e criminale, dichiarato da Standard & Poor’s, che, a sua volta, era controllata dalla Mc Graw Hill, della quale Morgan Stanley è tuttora azionista preminente. S&P  con il declassamento si era semplicemente vendicata, perché, dopo 17 anni, il governo italiano aveva interrotto un lucroso contratto di collaborazione.
Spero che la vittoria di Trump negli Stati Uniti, il “NO” deciso degli Italiani al referendum costituzionale e l’uscita coraggiosa della Gran Bretagna dall’Euro, diano una frenata a questo neoliberismo selvaggio e che si torni a parlare di lavoro, di diritti e di benessere per l’intera collettività. Sarà difficile, dato che la classe imprenditoriale è omologata alle teorie imposte dalla finanza globale e dato che noi non possiamo mettere in campo validi progetti di industrializzazione, non disponendo di quei capitali, che l’Europa continuerà a negarci. Rimane però la speranza che il buon senso e la politica riprendano a farsi valere e nulla ci vieta di sperare che il buon Dio ci dia una mano e ce la mandi buona..!
Alfredo Giglio

giovedì 16 febbraio 2017

Jendu vinendu11: Raggi-Stano-Fini

Virginia Raggi
Ricorderete certamente la polemica che di recente ha investito Vittorio Feltri a proposito del sindaco di Roma Virginia Raggi. Nell’edizione del 10 febbraio 2017 Feltri ha sparato in prima pagina su Libero il titolo Patata bollente  e nell'occhiello La vita agrodolce di Virginia Raggi. Polemiche, scandalo, indignazione contro la volgarità sessista di Feltri e critiche unanimi di tutto il fronte che va dal Pd all’ultrasinistra della Boldrini, finalmente accomunati, dopo tanto veleno, nella lotta antifascista e antifeltrista. La Raggi ha querelato Feltri ed ha chiesto l’intervento dell’ordine dei giornalisti.
Mi dispiace per Feltri, ma doveva aspettarselo. Forse sperava che la sua recente conversione al renzismo gli avrebbe consentito quello che finora era consentito solo alla stampa di sinistra e comunque di regime. Ma con la sua esperienza avrebbe dovuto sapere che, agli occhi del regime, il peccato originale di essere stato di destra, e peggio ancora berlusconiano, non si cancella. Anzi il regime è solito aggiungere al disprezzo originario un altro disprezzo, quello che normalmente è riservato ai voltagabbana e ai traditori.
Intanto la Raggi, la vispa Teresa come la chiama Sgarbi, ha trovato un po’ di solidarietà dalle parti del PD e questo la consola. Contenta lei!, ma non so quanto siano contenti i Romani che l’hanno votata. Doveva risolvere i problemi di Roma, che sono immensi, e non riesce a risolvere nemmeno i suoi problemi personali e sentimentali, che in fondo sono modesti. In lei sta emergendo quel poco di buono e quel molto di cattivo che ci sono nel movimento grillino: molto velleitarismo, molto pressapochismo, molto dilettantismo, un po’ di buona volontà e parecchio candore. La Raggi mi ricorda quel personaggio che bussa alla porta, le aprono, lei entra chiedendo “E’ qui la festa?”, la fanno entrare, ma lei non riesce ad ambientarsi e resta sempre un po’ intontita. Speriamo che qualcuno la scuota e  le ricordi che la vita non si riduce al prurito del solanum tuberosum.

Bruno Stano
Di ricordo in ricordo, ricordate pure la strage di Nassiriya del 2003? C’era il governo Berlusconi allora ed in Iraq c’era la guerra. Nell’attentato morirono 28 persone, tra cui 19 Italiani, ed i comunisti manifestavano per le strade gridando “10, 100, 1000 Nassiriya”. Pagina dolorosa certo, ma la magistratura ha provveduto a farcela ritornare in mente, perché nei giorni scorsi, il 13 febbraio 2017, la Prima sezione civile della Corte d'Appello di Roma ha condannato l'ex generale dell'Esercito Bruno Stano, responsabile della base Maestrale dove avvenne la strage, a risarcire le vittime.
La magistratura imputa al generale la colpa di non aver saputo prevedere la strage e di non aver adottato i provvedimenti necessari alla tutela dei civili e dei militari a lui affidati. Il generale è altresì accusato di non aver tenuto nel debito conto alcuni avvertimenti del nostro controspionaggio, che gli aveva riferito di un probabile attentato, da compiersi di giorno e non di notte, con un camion e non con un triciclo, con un potente esplosivo e non con una bottiglia molotov caricata a champagne.
Trattasi, ognuno lo capisce, di un’altra perla creativa della magistratura di questa nostra Italia che una volta, così si diceva, era la culla del diritto. Su questi presupposti Napoleone avrebbe dovuto risarcire le famiglie dei Francesi morti durante la battaglia di Austerlitz e Rommel avrebbe dovuto risarcire le famiglie dei Tedeschi e degli Italiani morti durante la battaglia di El Alamein.
C’è da ridere? C’è da piangere? Non lo so. Io so solo che, più o meno, si tratta di quella stessa magistratura creativa che un paio di anni fa condannò gli scienziati della Commissione Grandi Rischi, che, nel 2009, mentre c’era un altro governo Berlusconi, non erano stati in grado di prevedere il terremoto dell’Aquila.
Mi viene un sospetto. Berlusconi è stato l’unico uomo politico d’Italia al quale, durante i circa 60 processi subiti,  è stato sempre contestato il fatto che egli  non poteva non sapere, anche per i reati commessi dai suoi giardinieri e dai suoi stallieri. Vuoi vedere che la magistratura creativa ha deciso di applicare  lo stesso principio del “non poteva non sapere” anche a tutti quelli che hanno avuto a che fare con lui? Solo così si possono spiegare certe sentenze.
Anche se poi il problema mi sembra di facile soluzione per il futuro. Il Cavaliere ha 80 anni e, con il vento che tira, penso abbia capito che la sua carriera politica può ritenersi ormai conclusa. Ma se per caso, non si sa mai, il destino dovesse riservargli per un’ultima volta posti di responsabilità e di comando, mi permetto, dal basso della mia pochezza, di dargli un consiglio. Deve nominare il Presidente della Commissione Grandi rischi? Il mago Otelma. Deve nominare il comandante dei militari italiani in Libano? Il mago di Arcella. Deve nominare il capo della Protezione Civile? Il mago Silvan. E così via... Un unico problema: ci saranno tanti maghi in Italia da poter  coprire tutti i posti che comportano qualche responsabilità?

Gianfranco Fini
Gianfranco Fini è personaggio fin troppo noto perché se ne debbano rievocare i trascorsi politici. Basterà solo una rapida carrellata: “le comiche finali”  dopo il discorso del predellino di Berlusconi; il “che fai, mi cacci?”; la congiura con Napolitano ai danni di Berlusconi; la casa di Montecarlo; la fondazione di “Futuro e libertà”; il disastro elettorale alle elezioni  politiche del 2013; la fine politica.
Chi fosse Gianfranco Fini l’avevo intuito già molti anni prima, quando a Crotone mi capitò di assistere ad un suo comizio nel quale arrivò ad incazzarsi per i troppi applausi che gli facevano perdere tempo. Inaudito! Il colmo dell’abiezione poi io l’ho ritrovato in quel famoso filmato  del 2009 nel quale, credendo che i microfoni fossero spenti, si ritrovò a confabulare con un certo giudice Trifuoggi e a lanciare pesanti e volgari insinuazioni contro Berlusconi, allora Presidente del Consiglio.
Ora il cerchio si chiude e, per la casa di Montecarlo, si ritrova indagato di riciclaggio in combutta con i Tulliani, la famiglia di sua moglie. Un sentimento di umana pietà indurrebbe a sorvolare sulle responsabilità di un individuo che, prima che un avventuriero della politica o un farabutto, si è rivelato un idiota, per di più della peggiore specie. Poi ti viene in mente il male che egli ha fatto a coloro che avevano creduto in lui,  ti vengono in mente i danni che egli ha procurato ad un’intera parte politica, il centrodestra, che da allora vive in stato semicomatoso e stenta a riprendersi. Ed allora l’umana pietà scompare e ti viene voglia di gridare tutto il tuo sdegno. Che Fini sia indagato, processato e, possibilmente, trascorra in galera gli anni che gli restano da vivere. Se lo merita. Perché è vero che egli era e rimane un idiota, ma l'idiozia, in certe circostanze, non è un'attenuante, anzi...

lunedì 13 febbraio 2017

Un giorno in pretura, a Santa Severina (racconto inedito) di Ezio Scaramuzzino

Era comune usanza, nei paesi di una volta, provvedere privatamente ad allevare il maiale. Anche a Scandale esisteva, poco distante dal paese, una zona riservata allo scopo, con una distesa di porcili, dove ogni famiglia allevava il suo bel maialino e qualche volta, se l’ampiezza lo consentiva, anche due o tre.
Ogni giorno qualcuno della famiglia era incaricato di recarsi al porcile, trasportando un pesante secchio ripieno di una brodaglia semiliquida o di altre cibarie destinate al maiale. Io, che ero il più piccolo della famiglia, ero generalmente esentato da tale incombenza, ma ogni tanto il compito era affidato pure a me. In tali circostanze ero costretto a miracoli di equilibrismo per evitare che la brodaglia tracimasse e mi finisse addosso, cosa che non sempre riuscivo ad evitare.
Mio padre, invece, cercava quasi sempre di esimersi, nel timore di incontrare nei paraggi un tal Michele Noce, nei confronti del quale nutriva una cordiale antipatia e che inoltre, con tutto lo spazio a disposizione, aveva finito col costruire il suo porcile proprio di fianco al nostro. Ma un pomeriggio, non ricordo per quale motivo, toccò a lui. Arrivato a destinazione, vide che l’ingresso del nostro porcile era in parte ostruito dalla presenza di un masso informe, che, a guardarlo meglio, si appalesò per quello che effettivamente era: il trogolo del porcile del Noce, lo scifo, come era comunemente chiamato.
Mio padre probabilmente non ritenne vero di poter fare un dispetto al suo rivale. Fatto sta che (questa fu la sua successiva versione) diede un calcetto allo scifo per togliere l’ingombro, ma evidentemente non aveva fatto bene i suoi calcoli, perché l’ingombro incominciò a rotolare, superò un dislivello di circa 3 metri, finì su una pietraia e si adagiò al suolo dopo essersi spezzato in due parti perfettamente uguali.
Stavano scendendo le prime ombre della sera e la cosa poteva finire lì, senza che nessuno avesse visto niente. E invece il diavolo quel giorno aveva deciso di metterci la coda, perché da dietro il suo porcile apparve la testa di Michele.
-Hai visto il mio scifo?
-Non ho visto niente e non so niente.
-Come non sai niente? se l’ho lasciato qui solo qualche minuto fa, il tempo di pulire e lavare il porcile con qualche secchiata d’acqua!
-Ti ho detto che non so niente.
Il Noce, sempre più disperato, guardò verso il dirupo.
-E allora come si trova là sotto? Pure spezzato! L’hai fatto apposta. Era uno scifo antico, valeva un capitale.
- E’ vero che l’ho spostato, ma, se si è rotto, era soltanto uno scifo.
-Ah! Così dici? Ci rivedremo in pretura. 
Dopo qualche mese, quando ormai sembrava che la cosa fosse finita a tarallucci e vino, mio padre ricevette da una guardia municipale una raccomandata, in cui gli si comunicava che era stato denunziato da Michele Noce per danneggiamento di manufatto, presunto reperto archeologico, che gli si chiedeva un congruo risarcimento e che al contempo era invitato a trovarsi un difensore ed a presentarsi alla vicina pretura di Santa Severina dove la causa sarebbe stata dibattuta il giorno martedì, 19 maggio 1959.
Accompagnai io mio padre quel giorno in pretura, dove arrivammo verso le sette del mattino con un vecchio pullman che si arrampicava sui tornanti come una locomotiva del west. Alle 8 in punto eravamo dietro la porta ancora chiusa, dove erano già in attesa alcune persone, tra cui  Michele Noce con il suo avvocato, che riconoscemmo essere tutte di Scandale.
Sulla porta era affisso l’elenco delle cause del giorno: ne erano  previste solo due, la nostra  per le ore 11 e un’altra per le ore 9. Potevamo andare un po’ in giro, volendo, ma preferimmo restare, anche per la curiosità della prima causa, che si preannunziava interessante per il clamore suscitato nei dintorni.
Presiedeva quel giorno il pretore onorario Raffaele Scalfaro, famoso per la durezza delle sue sentenze. Si trattava di un avvocato del posto che, in quei tempi in cui di laureati in giro ce n’erano pochi, non disdegnava di incrementare le sue entrate facendo anche il professore di Educazione Fisica presso il locale Liceo e, quando era necessario, di svolgere le mansioni di pretore facente funzione.
Alle ore 9 in punto la corte era già insediata. A lato del pretore un vecchio cancelliere annunziava l’inizio della prima causa: Tallarico contro Coriale.
Luigi Tallarico ed Antonio Coriale erano gli unici due negozianti di stoffe di Scandale, ma avevano avuto l’infelice idea di piazzare i loro negozi a poca distanza l’uno dall’altro, sulla stessa Via Cafone del Molinaro, uno al numero 48 e l’altro al numero 60, costruendoci sopra anche le rispettive abitazioni. In queste condizioni avevano finito col covare un sordo rancore l’uno per l’altro, che li portava ad odiarsi cordialmente e talvolta a farsi anche dispetti più o meno dissimulati.
Chi covava più rancore nei confronti dell’altro era il Tallarico, che, essendo stato il primo ad aprire il suo negozio, considerava la sopraggiunta concorrenza del Coriale nient’altro che un sopruso, un deliberato e cosciente sopruso. Ed il rancore cresceva tanto più, quanto più egli vedeva che il sopraggiunto aveva successo, arrivando talvolta ad abbassare i prezzi in modo sleale e plateale pur di rubargli la clientela. Talché talvolta il Tallarico si lasciava andare a commenti piuttosto sprezzanti nei confronti del concorrente, senza ritegno, quando, seduto davanti all’ingresso del suo negozio, imprecava ad alta voce e si sfogava con i pochi clienti che gli erano rimasti.
 La cosa durava ormai da parecchi anni e l’inimicizia si era trasmessa anche ai rispettivi figli, due per parte e tutti maschi, che normalmente si ignoravano e, quando non potevano farne a meno, non mancavano di riversare nelle loro parole tutto il disprezzo che i rispettivi genitori avevano loro trasmesso.
Una sera sul tardi Luigi Tallarico stava rientrando a casa ed improvvisamente avvertì il bisogno irrefrenabile di svuotare la vescica. Poteva attendere di arrivare a destinazione, ma colse l’occasione per fare un dispetto al rivale. Si accostò alla serranda abbassata del di lui negozio, deciso ad irrorarla, quando si accorse che nella serranda c’era un foro. Tanto meglio. Vi infilò il suo attrezzo e svuotò la sua capiente vescica all’interno del negozio.
Ma, verso la fine dell’operazione, un grido lacerante lo atterrì e lo fece improvvisamente ritrarre. La moglie del Coriale, attardatasi a pulire, aveva visto tutto ed il marito, pure lui presente, corse ad aprire la serranda dall'interno cogliendo il Tallarico con le mani tra le gambe, ancora alle prese con la sua patta.
Tallarico fu denunziato ed anche lui, in quel giorno di maggio del 1959, si ritrovò a doversi difendere di fronte al terribile pretore Scalfaro.
-Signor pretore, esordì, riconosco di avere sbagliato. Ma non ce la facevo a resistere, sicché mi sono deciso ad alleggerirmi dietro la prima porta che ho visto.
-Ma si dà il caso che quella porta era proprio la serranda del negozio del Coriale.
-E’ vero, ma non me ne ero accorto. Era tutto buio, c’era la luna nuova, non si vedeva niente. E’ stato solo un caso.
-E anche l’immissione nel buco è stato un caso? Almeno lì ci vuole una certa precisione, bisognava vederci bene per centrare il buco.
-Anche lì è stato un caso, signor pretore, solo un caso, uno sfortunatissimo caso. Capita una volta su mille, ma capita.
Fu poi la volta dei coniugi Coriale e il marito depose per primo.
-Cosa ricordate di quella sera?, gli chiese il pretore.
-Signor pretore, io quella sera dovevo fare dei conti e per questo mi ero fermato nel negozio dopo la chiusura. Mia moglie si era fermata anche lei e ne approfittò per fare le pulizie, che in genere fa la mattina prima dell’apertura.
-Ma come mai la serranda presentava quel buco?, riprese il pretore.
-Il buco c’era da tanto tempo. Una volta lì c’era una serratura, ma poi ho cambiato serratura ed il buco c’è rimasto. Non potevo sapere che quello sporcaccione ne approfittava per farci i suoi bisogni.
      Fu poi il turno della signora Coriale e, mentre lei a capo chino si avviava nello spazio riservato, l’attenzione dei presenti divenne subito vivissima. La signora si bloccò davanti al pretore, giurò di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità e subito dopo affermò, su suggerimento del suo avvocato, che intendeva deporre a porte chiuse. Un prolungato oh di delusione echeggiò dalla parte del pubblico, che però, su ordine del signor pretore, fu costretto ad accomodarsi fuori.
Arrivò infine il turno degli avvocati. Quello dell’accusa parlò a lungo e chiese si tenesse conto dell’aggravante della premeditazione, perché solo con la premeditazione, secondo lui, si poteva portare a compimento un reato così odioso e così grave. Chiese inoltre che nella quantificazione dei danni morali, il signor pretore tenesse conto della particolare sensibilità della signora Coriale, la quale, oltre ad essere stretta collaboratrice del parroco, era anche Presidente della locale sezione femminile dell’Azione Cattolica e, in tale veste, aveva subito un particolare trauma psicologico di fronte allo spettacolo obbrobrioso di cui il Tallarico si era reso colpevole. L'avvocato della difesa parlò brevemente, non aggiunse molto a quanto già si sapeva e si limitò, o quasi, ad invocare la clemenza della Corte. Volle soltanto contestare quelle che, secondo lui, erano le eccessive pretese risarcitorie della controparte, in relazione al fatto che la signora Coriale si era messa a gridare alla fine e non certo all'inizio dello svuotamento vescicale del suo assistito.
 Dopo di che il pretore Scalfaro emanò la sentenza. Il Tallarico era condannato, con sospensione condizionale della pena, a due mesi di reclusione per atti osceni in luogo pubblico, al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento dei danni materiali e morali, che erano quantificati in lire 300.000, una cifra mostruosa per quei tempi.
Dopo un intervallo di circa mezz’ora il cancelliere annunziò l’inizio della seconda causa. Era il nostro turno. Su un tavolo a lato troneggiava il famoso scifo, sbrecciato in più punti ed in pessime condizioni generali a quel che era dato vedere.
Fu convocato dapprima Michele Noce.
-Come mai, gli chiese il pretore, avete chiesto il risarcimento di un manufatto di poco valore, quale comunemente è da considerarsi un trogolo o scifo, che dir si voglia?
-Signor pretore, rispose il Noce, quello non era uno scifo, o meglio, era pure uno scifo, ma soprattutto era un bene antiquario ed archiologico. Io quello scifo l’ho trovato quando ho scavato nella mia terra per costruirci una pagliara. Io ho visto che di sopra c’era pure scritto e, siccome io non ho molta coltura, l’ho portato a leggere a don Ciccio Tricoli, l’Ufficiale postale, che mi ha detto che era scritto in greco e voleva dire “scava che truovi”.
-E voi avete scavato?
-Sì, ho scavato, ma non ci ho trovato niente, anche se io mi credevo che ci trovavo un tesoro. Però lo scifo me lo sono tenuto, perché era di valore, anche se ci facevo mangiare il maiale. Però ora voglio essere pagato.
- E non potevate aggiustarlo?
- Ho cercato di aggiustarlo con il cemento, ma non è venuto bene. Ed anche il maiale pare che se n’è accorto, perché per parecchi giorni non ha mangiato più come una volta e si cresceva male. E comunque come archiologia non vale più come prima.
Fu poi il turno di mio padre il quale cercò di dimostrare che il calcio allo scifo era stato accidentale e dovuto solo al fatto che, a causa di quell’ostacolo, egli aveva rischiato di finire per terra.
L’avvocato di Michele Noce, un vecchio trombone, esordì dicendo che gli oggetti debbono essere valutati in base al loro valore affettivo, non commerciale e, dopo vari sproloqui, così concluse: “Anche un trogolo, in una terra che si onora di aver fatto parte dell’antica Magna Graecia, può avere la sua dignità artistica. Perché è certo che su di esso si rilevano caratteri dell’alfabeto greco, come l’illustrissimo signor pretore potrà personalmente rilevare, se conosce la nobilissima lingua di Omero.(Il pretore faceva segno di no con il dito). E noi non sappiamo se quel trogolo è stato importato da Atene e magari è stato utile ai porcari di Pericle, del grande Pericle. O se, per converso, esso è stato costruito nella Magna Graecia, magari a Crotone, e quindi potrebbe aver alimentato i maiali di cui si è cibato il divino Zeusi, all’epoca in cui egli dipingeva il famoso ritratto di Elena, avendo come modelle le cinque più belle vergini della città.”
A questo punto l’avvocato si fermò di botto, si girò attorno come aspettasse un applauso, ma, visto che gli astanti dimostravano una certa freddezza, si calmò bofonchiando e si pose a sedere.
L’avvocato di mio padre, il giovane avvocato Giuseppe Apa,  che oltre tutto era anche arrivato in ritardo, poco prima dell’inizio della causa, non mancando di procurare a mio padre qualche preoccupazione, si alzò in piedi con molta calma e con altrettanta calma iniziò la sua perorazione. Notai che  strascicava leggermente le parole, ma si dimostrò molto sicuro ed efficace. Iniziò facendo riferimento alla memoria difensiva allegata, espose brevemente i punti principali della lite e così concluse: "Il mio assistito si dichiara pentito del danno arrecato alla controparte e comunque è disponibile a riconoscere un equo risarcimento del danno causato al manufatto, a condizione però che esso venga considerato per quello che effettivamente è, cioè uno scifo destinato all’alimentazione dei maiali, e non un oggetto appartenuto a Pericle o a Zeusi. E dico questo perché i presunti caratteri dell’alfabeto greco rilevati su di esso sono in realtà semplicemente dei graffi provocati dall’uso e non certo quello che la controparte pretende che siano. Chiedo altresì il compenso delle spese processuali".
Dopo una ventina di minuti il pretore emanò la sentenza: Scaramuzzino Francesco era condannato a pagare alla controparte la cifra simbolica di 1.000 lire, non potendosi riconoscere al manufatto nessun valore artistico o archeologico. Le spese processuali erano ripartite per compenso, nel senso che ognuna delle parti pagava il suo avvocato.
Oggi le preture non esistono più: ci sono i giudici di pace, davanti ai quali  si trovano soltanto delle anonime scrivanie e, qualche volta, un paio di sedie. Lì ci si siede per raccontare le vicende e gli svolgimenti di una vita che non è più quella di 40-50 anni fa: è la vita nella quale si parla di autovelox e di litigi condominiali, di locazioni non pagate e di risarcimenti assicurativi,  non più di dispetti a base di pipì o di trogoli scassati.
Ezio Scaramuzzino